C’è un discorso ricorrente, che viene fatto sia da politici di peso (primo fra tutti l’attuale presidente della repubblica mozambicana, Filipe Nyusi, insieme all’ex-presidente, Joaquim Chissano) che da accademici e attivisti sociali (come João Feijó o Adriano Nuvunga), che invoca il dialogo coi ribelli di Cabo Delgado come soluzione migliore per la fine del conflitto.
Ribelli che, è bene ricordarlo, hanno fatto un numero imprecisato di vittime (che dovrebbe aggirarsi intorno alle 3mila), quasi 800mila rifugiati (su una provincia che conta poco più di un milione di abitanti), di cui – secondo dati delle Nazioni Unite – il 31% donne e il 46% bambini, mentre del fabbisogno per ricostruire le zone colpite da questi continui attacchi – fondamentalmente il nord della provincia di Cabo Delgado – per il momento è arrivato meno del 10% dei circa 15 milioni di dollari necessari.
Questo discorso ricorrente parte da un presupposto implicito, dal sapore paternalista: sono “nostri figli” che hanno sbagliato e “siamo pronti a perdonarli”. Mai approccio è stato più semplicistico e limitato: ormai i “nostri figli” sono cresciuti, anzi, a guardare bene, figli di Nyusi e dello stato mozambicano questi ribelli non lo sono mai stati. La retorica nazionalista non ha mai attecchito su di loro e il sentimento di esclusione è stato sistematico e profondo. Solo che, fino a pochi anni fa, l’unico sbocco possibile era la rassegnazione.
Poi qualcosa è cambiato e si sono create le condizioni per la formazione di una identità collettiva forte, in contrapposizione con quella nazionalista e modernizzante dello stato mozambicano. Certo, di questi uomini (perché di donne ne sono state trovate pochissime, almeno nella partecipazione diretta al fronte di lotta) si sa ancora poco, e forse continuerà così ancora per lungo tempo.
Recentemente sono anche venuti fuori alcuni nomi di probabili leader: da quello religioso, nei giorni scorsi ucciso dalle forze militari della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc) nella base di Chitama, nei pressi di Nangade, Njile North, a quelli politico-militari, come Abu Yassir Hassan e Bonomade Machude Omar, i due principali rappresentanti dello Stato islamico in Mozambico, anch’essi morti in battaglia.
Nomi, però, che poco dicono rispetto a quanto profondo sia il malcontento stratificatosi in questa parte del paese: è da qui che si deve partire per comprendere un fenomeno che nessuno si aspettava.
E un ennesimo mito è caduto: quello di un paese possibile, in cui convivono pacificamente gente di etnie e religioni diverse. In realtà, come ci ha ben illustrato un amico kimwani visto a Maputo, le tensioni etnico-religiose fra kimwani e amakhuwa, da un lato, e makonde (e quindi governo centrale) dall’altro, sono esistite da sempre.
I makonde, insieme ai ronga del sud, si sono accaparrati benefici politici di tipo nazionale (borse di studio all’estero per figli e nipoti, pensioni come ex combattenti, posti chiave nell’esercito e nell’apparato amministrativo) ed economici su scala locale, come l’“occupazione” delle terre oltre i “loro” distretti, quelli dell’Altopiano dei makonde.
Una occupazione che, per esempio, ha portato il generale makonde Raimundo Domingos Pachinuapa a ottenere a tempo record la licenza per lo sfruttamento di uno dei più grandi giacimenti di rubini del mondo, a Montepuez, dove centinaia di garimpeiros (piccoli raccoglitori artigianali) si garantivano la vita proprio grazie a una simile attività.
Oggi, Montepuez è dominata da una joint-venture fra la società di Pachinuapa (e del figlio di Samora Machel, Samito) e la multinazionale inglese Gemsfield, che ha originato la Montepuez Ruby Mining, che continua ad avere conflitti violentissimi coi garimpeiros, tutti di etnia kimwani e makhuwa, nonostante una condanna del Tribunale di Londra per gravisime violazioni dei diritti umani.
Questa è soltanto una delle situazioni di conflitto per la terra e di potere fra i minoritari makonde e le altre etnie, numericamente maggioritarie, di Cabo Delgado. Etnie che, soprattutto i kimwani, da sempre hanno professato l’islam come loro religione.
Ma un islam diverso da quello dei loro ricchi fratelli di Maputo, poiché quello di Cabo Delgado era un islam sufista, fatto di piccole confraternite, i cui leader erano numerosi e dispersi, insomma, con una struttura organizzativa tendenzialmente orizzontale. Persone pacifiche, tolleranti, ma sempre più povere e alla mercé dello strapotere makonde, che ha iniziato a trasformarsi ben presto in odio irriducibile verso i potenti vicini.
Quando alcuni giovani della zona sono riusciti ad andare a studiare fuori, in paesi come Egitto, Sudan, Arabia Saudita, e sono tornati radicalizzati, l’equazione che paragonava i makonde e i ronga ai conquistatori illegittimi dei loro territori è scattata automaticamente. Questo odio è stato alimentato anche dallo stesso stato mozambicano e dai suoi perversi meccanismi di corruzione.
È stato grazie alla corruzione della polizia migratoria, di quella civile e di frontiera, che diversi stranieri legati allo Stato islamico sono entrati, soprattutto dal confine tanzaniano o anche via mare, illegalmente, pagando 1.000-2.000 dollari a chi doveva controllare e impedire l’entrata di questi individui (spesso armati). Trovatisi in territorio mozambicano, insieme ai giovani già radicalizzati, hanno sfruttato la rete orizzontale dell’islam sufi, penetrando nella società locale.
Qui, hanno iniziato a indottrinare anche donne e perfino minori (nei giorni scorsi molti bambini-soldato sono stati scoperti dall’esercito regolare) che hanno costituito una preziosa retroguardia di informatori, la loro migliore struttura di intelligence.
È così che i ribelli hanno mietuto simpatie fra le popolazioni locali, nonostante l’orrore che hanno sparso fra i civili. Un orrore, però, anche questo in parte calcolato: se la loro identità si è costruita “contro” (i makonde e lo stato mozambicano che hanno occupato i loro territori), l’obiettivo è diventato la diffusione dei principi della sharia e le vittime preferite sono state soprattutto i funzionari pubblici e i “collaborazionisti”, coloro che avevano rapporti, professionali e di altro tipo, con chi rappresentava la struttura dello stato centrale a Cabo Delgado.
Di fronte a tale identità negativa, costruita su una idea del tutto fuorviante di islam e completamente distruttiva, l’opzione del dialogo appare davvero poco credibile.
Piuttosto, sembrerebbe più proficuo, da parte delle istituzioni che stanno iniziando una difficile ricostruzione dei territori colpiti da questo conflitto, intraprendere la strada di una comprensione delle ragioni strutturali, politiche ed economiche, che hanno portato alla formazione di una identità collettiva così radicalizzata, e da lì prendere spunto per cominciare un lungo processo di inclusione di kimwani e amakhuwa dentro la società nazionale, pur nel rispetto delle loro diversità, linguistiche, culturali e religiose.
Il dialogo invocato da Nyusi e Chissano non è che una scorciatoia, peraltro impraticabile, dinanzi a un nemico rispetto a cui – oltre a non avere un leader ufficiale a fare da interlocutore – non esiste alcun punto in comune, a partire dal semplice rispetto per la vita umana.
Si tratta di un cammino assai complesso, che uno Stato come quello mozambicano odierno – esso stesso non ancora del tutto pacificato, come dimostra la recente uccisione, in uno scontro a fuoco con l’esercito, di Mariano Nhongo, storico leader dell’ala armata dissidente della Renamo attiva nella provincia centrale di Sofala – difficilmente riuscirà a percorrere, fermandosi, probabilmente, alle vittorie militari ottenute, in larga misura, grazie all’appoggio delle truppe del Rwanda e della Sadc, e alla ricostruzione infrastrutturale del territorio, non risolvendo le questioni più profonde che hanno portato a un conflitto tanto inatteso quanto distruttivo.