Che il cacao sia amaro più di tutti lo sanno i coltivatori ghaneani e ivoriani che si ammazzano di lavoro per rifornire un mercato vorace e avaro. Sono loro – e spesso tra questi loro ci sono bambini – l’anello debole della catena di produzione, vendita, accumulazione, distribuzione di quest’alimento dall’enorme valore commerciale.
Sono quelli che, alla fin fine, continuano a vivere nella miseria sia che il mercato vada bene sia che vada male. Nessun agricoltore che suda tra le piante della fava di cacao si è mai arricchito. Ed è questo il dato da cui partire ogni volta che si affronta la tematica del miglioramento delle condizioni di lavoro, degli accordi tra produttori e multinazionali, di nuove regole.
Costa d’Avorio e Ghana insieme rappresentano il 65% della produzione globale di cacao, ma gli agricoltori di questi due paesi guadagnano meno del 6% delle entrate totali dell’industria del cioccolato. È stato calcolato che un agricoltore ghaneano che lavora nel settore del cacao guadagna 1 dollaro al giorno (cifra in cui spesso rientrano i sussidi dello Stato) mentre per un ivoriano il guadagno scende a circa 0,78 dollari al giorno. Mentre il mercato mondiale del cioccolato, stimato in oltre 100 miliardi di dollari, è concentrato nelle mani di poche multinazionali.
È una storia antica quella dello sfruttamento dei lavoratori in questi paesi. Una storia che periodicamente si ripropone. A cambiare sono solo le modalità di approccio, oggi più istituzionali e complesse. Era il 1937 quando i contadini ghaneani sfidarono nove compagnie europee che avevano fatto cartello per acquistare allo stesso prezzo il cacao da esportare e processare all’estero.
Un prezzo da sfruttamento che a un certo punto fu talmente spinto al ribasso da portare i produttori locali alla fame. Fu così che decisero, tutti insieme, di bloccare il rifornimento. Il risultato fu che le compagnie furono costrette a riconsiderare le condizioni di acquisto. Una rivolta popolare che fu ribattezzata cocoa hold-up. Ma nonostante tante battaglie, l’equazione – una strana equazione – rimane sempre la stessa: massimo sfruttamento uguale a massimo guadagno (non per l’anello debole della catena, ovviamente).
Nuovo accordo di cooperazione
Ora i due governi, quello del Ghana e quello della Costa d’Avorio, ci riprovano ad equilibrare i giochi di forza e di potere in questo settore economico così importante per le economie nazionali di entrambi i paesi. Pochi giorni fa è stato raggiunto un accordo per migliorare la loro cooperazione su diversi temi che vanno dalla fissazione del prezzo del cacao alla lotta al lavoro minorile nel settore. Istituito anche una sorta di segretariato, con sede ad Accra, che servirà come coordinamento e per controllare e discutere l’andamento dei termini dell’accordo.
Tale accordo è il risultato di precedenti iniziative e soprattutto dell’impegno comune del 2019 per ottenere un prezzo migliore per ogni tonnellata di cacao dall’industria del cioccolato. Da quell’impegno scaturì il programma del Lid (Living Income Differential), una sorta di reddito di sussistenza ideato per aiutare, appunto, quel milione e oltre di piccoli coltivatori di cacao, aggiungendo un premio al prezzo di mercato.
Invece di limitare l’offerta per aumentare i prezzi, il meccanismo aggiungeva semplicemente un premio di 400 dollari per tonnellata ai prezzi prevalenti del mercato mondiale. Ma le multinazionali hanno subito pensato a come aggirare il Lid, differenziando e cambiando modelli d’acquisto. Ma anche imputando al Covid-19 un calo della domanda e dunque della loro necessità di acquisto presso i tradizionali venditori.
Calo smentito da chi fa notare che invece proprio durante il lockdown la voglia di cioccolata e prodotti dolciari sia cresciuta facendo aumentare di conseguenza gli introiti delle aziende. Nel frattempo, però, Ghana e Costa d’Avorio potrebbero finire l’anno con un surplus di prodotto invenduto, un “dispetto” delle multinazionali che si forniranno altrove ma anche l’effetto della corsa alla produzione degli agricoltori che confidano nel programma Lid.
Una delle azioni a disposizioni dei governi dei due paesi dell’Africa Occidentale potrebbe essere quella di escludere le aziende che non rispettano il programma dal ciclo di sostenibilità, indispensabile per ottenere quel marchio etico fondamentale ormai per stare su un mercato attento alle modalità di sfruttamento della terra e di chi la coltiva.
Controllare e limitare l’offerta è, a questo punto, l’obiettivo dei due paesi che potrebbero anche considerare un’alleanza – sempre nell’ottica del controllo dei prezzi – con l’Indonesia, terzo produttore mondiale di cacao, e con Nigeria e Camerun, che in Africa vengono dopo Costa d’Avorio e Ghana nella produzione di questo prezioso alimento. Cosa che però, probabilmente, si scontrerebbe con il sistema antitrust e delle liberalizzazioni.
Oltre 1 milione di bambini al lavoro
Altra questione peculiare della produzione di cacao è il ricorso al lavoro minorile. Fatto risaputo e documentato da anni di inchieste e report. Sono 1.56 milioni i bambini che lavorano nei due paesi confinanti del Golfo di Guinea, di questi il 43% sono impegnanti in attività pericolose nel settore del cacao (esposizione ad agenti chimici, a frequenti incendi, trasporto di carichi pesanti, uso di strumenti affilati).
Certo, bisogna fare i conti con la differenza di parametri culturali di chi redige queste analisi che denunciano l’abuso del lavoro di bambini e ragazzi, cosa invece assolutamente normale nelle famiglie africane, specie quelle rurali. Lo ha fatto anche notare il ministro ghaneano dell’impiego e del lavoro, Ignatius Baffour Awuah, che ha quindi in qualche modo contestato gli ultimi dati provenienti dal Dipartimento Usa competente sulle questioni internazionali del lavoro.
Comunque sia, i due governi negli anni hanno messo a punto – insieme a ong e organizzazioni della società civile – piani per ridurre la presenza dei bambini nelle piantagioni. E anche l’accordo presentato in questi giorni insiste sulla “lotta al lavoro minorile”. Mancano però i dettagli sul come.
I leader dei due paesi sanno bene che si tratta di un approccio teso più ad accontentare gli osservatori internazionali che a soddisfare bisogni e sollecitazioni interne. Seppure la sensibilità nei confronti del lavoro dei minori sia cambiata moltissimo negli ultimi anni, la realtà è più forte.
E la realtà parla di contadini che pur lavorando tante ore al giorno guadagnano meno di 1,20 dollari al giorno, rimanendo così sotto la soglia di povertà fissata dalla Banca mondiale. In queste condizioni, considerare il lavoro di figli, nipoti, minori in genere un abuso è la loro ultima preoccupazione.