Lo scorso 26 settembre, nel corso di un attacco alla scuola cattolica primaria di St. Martin of Tour’s di Kembong, nella diocesi di Mamfe, nella regione Nord-Ovest del Camerun, era rimasto ferito un sacerdote della Società Missionaria di San Giuseppe di Mill Hill (MHM), padre Elvis Mbangsi.
Come lui erano stati colpiti con proiettili alle gambe anche quattro insegnanti della stessa scuola.
Gli aggressori, presumibilmente separatisti antigovernativi dell’Ambazonia, noti come Amba Boys, sostengono di voler impedire l’insegnamento nelle scuole della regione.
Una campagna di feroci attacchi armati che si è intensificata dopo l’uccisione, in mese scorso, di un loro leader, noto come Bitter Kola, da parte dell’esercito.
L’attacco contro la St. Martin of Tour’s è avvenuto il giorno dopo il rapimento di dieci capi di quartiere da parte di uomini armati, presentatisi come separatisti.
Si tratta del più recente di una lunga serie di episodi di violenza compiuti dai gruppi armati, attivi da sette anni nelle due regioni anglofone di Nord-Ovest e di Sud-Ovest, dove vive circa il 20% della popolazione.
Sulla scia di una serie di proteste popolari, nel 2016, gli Amba boys avevano lanciato un’offensiva contro il governo per separarsi dal resto del paese, di lingua francofona. Dando vita a un aspro conflitto con Yaoundé, dal quale ancora non si vede una via di uscita.
Oltre ai frequenti scontri con i soldati governativi, i separatisti da vario tempo hanno imposto un boicottaggio scolastico per protestare contro il sistema educativo francofono che secondo loro penalizza gli anglofoni.
Hanno così costretto alla chiusura migliaia di scuole nella regione, dandone molte alle fiamme e provocando l’abbandono di centinaia di insegnanti, spesso rapiti e uccisi.
Una campagna, questa, che ha impedito gli studi a oltre 700mila bambine/i e ragazzi/e.
Strade di dialogo
Spinto dalle pressioni della comunità internazionale, nel 2019 il regime di Paul Biya aveva lanciato un dialogo nazionale per cercare una soluzione.
Le chiese, tuttavia, avevano definito tale iniziativa “un monologo” del regime, visto che i maggiori leader separatisti al tempo del “dialogo” si trovavano in carcere.
Nonostante i ripetuti attacchi subiti, la Chiesa cattolica – che rappresenta il 40% dei 27 milioni di camerunesi -, secondo un rapporto del 2018 dell’International Crisis Group, appare la sola istituzione in grado di mediare tra le parti in conflitto.
“Se nessuno si assume questo compito – recitava il report – il sentimento separatista presente nelle regioni anglofone non farà che aumentare, esacerbando ancor più il conflitto in atto da anni nella regione”.
La Chiesa, che continua ad operare nonostante violenze e minacce, cerca comunque strade di dialogo, come ha sottolineato in un’intervista a metà settembre il presidente della Conferenza episcopale del Camerun, mons. Andrew Nkea Fuanya, arcivescovo di Bamenda, capitale della regione di Nord-Ovest.
«Nonostante le violenze non ho chiuso nessuna parrocchia né sono scappato» dichiara il presule, raccontando come all’inizio di settembre avesse avuto luogo un incontro costruttivo con i leader religiosi delle altre confessioni cristiane e dei musulmani, per valutare insieme la situazione sociale e politica del paese.
«Noi chiediamo a tutte le parti di far cessare la voce delle armi così da avviare un dialogo senza preconcetti, con cuore aperto, per risolvere il problema. La Chiesa non ha preso posizione né per i separatisti né per il governo, proprio per avere la possibilità di offrire i propri servizi di mediazione» ha concluso l’arcivescovo.