Il 24 marzo 1980, mentre celebrava l’Eucaristia, veniva ucciso monsignor Óscar A. Romero, arcivescovo di San Salvador in Centroamerica. Romero, dopo l’assassinio del suo amico, il prete gesuita Rutilio Grande, cambia strategia e inizia a percorrere il vero cammino di Gesù di Nazaret.
Comincia a smarcarsi dalla borghesia ricca, dai latifondisti e da alti esponenti dell’esercito di El Salvador che vogliono intrappolarlo dentro i loro interessi di parte, rendendolo funzionale a un sistema ingiusto di privilegi che prevedono l’oppressione del popolo. Romero ci mette la faccia, protegge i contadini minacciati, gli indigeni e la gente impoverita delle periferie e arriva a essere odiato dai militari e dalle élite del paese. Perfino i suoi fratelli vescovi cominciano a guardarlo di traverso e il Vaticano non è da meno.
Nel gennaio 1980, avendo già ricevuto minacce di morte, Romero si recò a Roma per chiedere di parlare urgentemente con papa Giovanni Paolo II. Questi si negò e i giornali di tutto il mondo ne diedero notizia. Gravissimo per un successore di Pietro al timone della barca di Gesù, dove evidentemente il profeta di Galilea era stato fatto scendere. Un mese e mezzo dopo fu assassinato: stessa sorte di Gesù nella sua passione.
Romero ha accolto il rischio di ritrovarsi solo. Considerato un comunista. Ha accettato di perdere amicizie importanti, ma è rimasto fedele alla povera gente e al Vangelo. In una delle sue ultime omelie disse: «Come cristiano non credo nella morte senza risurrezione. Se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno». Papa Francesco, in netta controtendenza con i suoi predecessori, lo ha proclamato santo per la Chiesa universale il 14 ottobre 2018, in quella Roma dove 38 anni prima era stato lasciato fuori dalla porta. Santo non subito, ma per questo autentico.
Come l’indigeno Sepé Tiaraju, un leader che ha dato la vita nella lotta per la libertà del suo popolo Guarani e che è in lizza per la canonizzazione. Segni evidenti che il vento in Vaticano è cambiato e che il martirio è in testa alla lista dei pilastri di Francesco, per restaurare una barca che fa acqua da tutte le parti e che è in ritardo con la storia di duecento anni. Parola del cardinal Martini e del suo confratello gesuita divenuto papa, Francesco. Dal sangue dei martiri riparte il cammino per un vero cambio di rotta della Chiesa e del mondo.
In questa giornata di preghiera e digiuno ricordiamo i missionari e le missionarie martiri: nel 2020 sono stati uccisi nel mondo 20 missionari (8 sacerdoti, 1 religioso, 3 religiose, 2 seminaristi, 6 laici). In testa il continente di San Romero d’America, seguito dall’Africa. I martiri sono solo la punta dell’iceberg di un popolo di oltre 250 milioni di cristiani perseguitati nel mondo.
È certamente molto lungo l’elenco delle persone aggredite, violentate, derubate, minacciate e torturate: dai lager della Libia, alle incursioni jihadiste di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico, dalle violenze terroriste nel Sahel, ai massacri del Tigray, nel nord dell’Etiopia. Passando per l’est della Repubblica democratica del Congo, bersagliata da una escalation di violenze che si ripropongono con continuità da oltre 25 anni!
Martirio significa testimonianza. Per noi cristiani è la testimonianza di un incontro che ci ha afferrato il cuore e ci ha cambiato la vita. Incontro che non possiamo né abbandonare né dimenticare. La testimonianza rende visibile ciò che si crede in profondità. E per cui si è disposti a vivere e, se serve, a morire, come amava ripetere Martin Luther King.
Testimoni veri, uomini e donne che ci insegnano che il martirio non è un modo di morire, ma è soprattutto una maniera di vivere. Il loro impegno per la costruzione di un mondo migliore li rende un punto di riferimento imprescindibile per tutti noi. Per non perdere la speranza.
In Brasile, nella prelatura di São Félix de Araguaia, il vescovo Pedro Casaldáliga, profeta nonvolento della liberazione, ha fatto costruire il santuario dei martiri della Caminhada (parola bella ed efficace che in Brasile si usa spesso per indicare l’impegno del popolo per la liberazione), proprio nel luogo dove il padre gesuita João Bosco Burnier è stato assassinato perché scambiato per il vescovo.
Una tragedia che segnò la vita di dom Pedro e per la quale si organizza ogni anno, a luglio, la processione dei Martiri della Caminhada, diventata un punto di riferimento nazionale e internazionale.
Ricordava dom Pedro: «Sto dicendo da molto tempo che un popolo o una Chiesa che dimenticano i loro martiri non meritano di sopravvivere». Nel 25° del martirio di p. João Bosco, spiegò il significato del santuario e del pellegrinaggio: «In questo santuario, unico nel suo genere, viene accolta ecumenicamente la testimonianza di tutti coloro che hanno dato la vita per la causa maggiore di Dio, che è anche la causa più grande della stessa “Umanità”».
Questi martiri non sono spariti. Vivono ogni volta che si alza la voce per la giustizia, per la causa degli impoveriti e oggi più che mai per la protezione di Madre Terra. Oggi vogliamo celebrare il martirio dei crocifissi dal razzismo, dalla menzogna, dalla sete di accumulo, dalla discriminazione sociale, dalla xenofobia, dalle violenze e dall’indifferenza. Camminando con San Romero d’America e tutti i martiri della storia verso la Terra senza Mali.