Con il suo ultimo romanzo, Igiaba Scego ci fa dono di una profonda, e bellissima, richiesta di pace. Una parola che in Cassandra a Mogadiscio risalta proprio per la sua assenza: non c’è pace nella storia di hooyo, sua madre, o del suo aabo, il padre. Ma non c’è pace neanche per chi, come lei, pur non avendo vissuto la guerra, è divorato dal Jirro. Un termine che in somalo significa “malattia” e che qui diventa il simbolo della condizione del rifugiato, del migrante e dei suoi figli.
Difficilmente riconoscibile a chi non è affetto, può manifestarsi sotto forma di disturbi alimentari, di cancro, di perdita della vista, di depressione. O in altre varianti meno eclatanti ma altrettanto logoranti. Il Jirro, l’eredità di chi perde tutto a causa della guerra o dello sradicamento. Un romanzo che ribadisce come “pace” non sia assenza di guerra, ma qualcosa di molto più ampio, spesso strappato insieme al proprio paese.
Siamo di fronte a un racconto familiare dislocato tra due nazioni e tra due secoli, l’Italia e la Somalia, il Novecento e il presente. Al centro il Jirro e la memoria. È una storia fatta di cura e di perdita, un trauma reiterato e strascicato nel tempo. E la perdita è scandita, come in sottofondo, da piccoli dettagli che accompagnano le pagine. Come la progressiva perdita della vista, un senso centrale, dato che la memoria viene descritta come qualcosa di visuale, fatta di immagini. Ed è proprio con la parola “immagine” che il libro si chiude. E come l’Igiaba personaggio teme di perdere la vista di giorno in giorno, anche la memoria rischia di perdersi, se non viene inseguita e curata.
È un romanzo figlio del proprio tempo, l’epoca della letteratura concepita come atto di testimonianza: alle vicende personali viene riconosciuto il dono dell’universalità. Scego lo dice esplicitamente, la letteratura è uno «scavo storico che ognuno di noi è tenuto a fare su se stesso». Un modus operandi potenzialmente scivoloso, che però offre risultati di alto valore letterario, se ad accoglierlo è una scrittrice abile come lei, che meriterebbe a pieno titolo di entrare nel canone delle grandi scrittrici italiane. Sicuramente ancora troppo in ombra per il suo valore.
Eppure, questa sua «autobiografia in movimento» è un’occasione preziosa per la nostra storia letteraria. La storia della sua famiglia è la storia di migliaia di famiglie che attraversano e vivono l’Italia. Il Jirro tormenta anche loro, anche chi non ha mai sentito nominare questa parola e magari ne è affetto senza saperlo. Così Scego racconta della Somalia, ma non dimentica di citare tutte le altre guerre che piegano il mondo di oggi, imprigionato in una «catena industriale di conflitti». La guerra è «morte, cancrena, polvere, pus»: una consapevolezza che genera la sindrome di Cassandra, che si appiccica a tutti quelli che hanno già visto e la cui ferita premonitrice continua a venire ignorata dai potenti della terra.
Allora Scego ricorre alla scrittura. Il lessico scelto è eloquente, vivo, pungente. Senza sconti. Eppure, ha un che di delicato difficile da spiegare: leggerlo è come planare dall’alto su un cuore, abbassare lo sguardo e pensare, quante cose incredibili ci sono qui dentro. Pensieri, emozioni, dolori, gioie, domande: piccoli bagliori di comprensione che ci avvicinano a quello che è il vero volto dell’Italia di oggi. In un italiano che sembra offrirsi a lei spontaneamente: quell’italiano «un tempo singolare e ora plurale». Lingua di Dante Alighieri quanto la sua.