«Ci presentavano l’Impero come una gloria della Patria! Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l’Impero. I nostri maestri s’erano dimenticati di dirci che gli etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini, mentre loro non ci avevano fatto nulla.
Quella scuola vile, consciamente o inconsciamente non so, preparava gli orrori di tre anni dopo. Preparava milioni di soldati obbedienti. Obbedienti agli ordini di Mussolini. Anzi, per esser più precisi, obbedienti agli ordini di Hitler. Cinquanta milioni di morti. (…) Che gli italiani in Etiopia abbiano usato gas è un fatto su cui è inutile chiuder gli occhi». Così don Lorenzo Milani in Lettera ai giudici (Barbiana, 18 ottobre 1965) scritta al posto di quanto avrebbe detto in aula se non ne fosse stato impedito dalla malattia.
Il giovane prete aveva risposto ai confratelli, cappellani militari toscani in congedo, che avevano sottoscritto il comunicato dell’11 febbraio 1965 in cui tributando “riverente e fraterno omaggio a tutti i caduti per l’Italia”, considerano “un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà” (La Nazione, 12.2.1965).
Don Milani aveva reagito con forza. E partendo dal “ripudio” della guerra (quello dell’articolo 11 della nostra Costituzione), costruisce una discussione colma di passione sui fondamenti del vivere civile, sugli strumenti di lotta contro le ingiustizie, sul diritto-dovere di migliorare le leggi, sulla responsabilità legata a ogni scelta personale.
«Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri – scrive – allora io vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro: gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri». E aggiungeva: «Io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi».
Un gruppo di ex combattenti sporge allora “formale denuncia” contro don Lorenzo (e il direttore di Rinascita, Luca Pavolini, che aveva pubblicato il testo) al procuratore della repubblica di Firenze. Si arriva al processo.
Dell’11 febbraio 1966 è la sentenza su quello che per i giudici era “l’oggetto principale” della lettera, cioè “il problema dell’obiezione di coscienza”: «Il Milani va assolto dal delitto ascrittogli trattandosi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato». Ma bisognerà attendere il 15 dicembre 1972 (legge n. 772) perché l’obiezione di coscienza sia riconosciuta.
Una vita per la scuola
Ad Adele Corradi, 99 anni a breve, l’insegnante a fianco di don Milani negli anni più difficili e avvincenti della scuola di Barbiana, è stato chiesto quale sarebbe il modo più bello e veritiero per ricordarlo.
La risposta: «Per celebrare il centenario mi piacerebbe che non si parlasse di don Milani, se ne è parlato anche troppo, ma che si facesse parlare lui, don Milani. In altre parole, si dovrebbe fare seminari in cui si studiasse don Milani. Gruppi di insegnanti, magari coordinandosi, dovrebbero cercare negli scritti di don Lorenzo se c’è qualche idea che possa servire alla scuola di oggi. Lo stesso dovrebbero fare gli studenti, e i preti…Forse anche i preti…per la Chiesa di oggi» (Rocca, 15 maggio 2023).
Allora invito tutti a riprendere in mano Lettera a una professoressa – don Milani poté vederne solo le prime copie di prova – frutto della “scrittura collettiva” del “priore”, come loro lo chiamavano, e dei ragazzi della scuola. C’è chi ha parlato di quello scritto del giugno 1967, come del “canto di fede nella scuola”.
E Nazareno Fabbretti aggiunge: «Da un’équipe di una ventina di ragazzi toscani guidati da un prete per circa un anno, nelle stanzette povere e nude di una canonica di montagna è stata avviata la più sovversiva rivoluzione proposta alla scuola in questi ultimi decenni. Ed è stata anche scritta un’opera di rara perfezione linguistica e pedagogica» (Don Mazzolari, don Milani. I “disobbedienti”).
Ascoltiamo dunque:
– Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I CARE”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori: “me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “me ne frego”.
– Ogni parola che non impari oggi è un calcio nel culo domani.
– Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali.
– È solo la lingua che rende uguali. Uguale è chi sa esprimersi e intendere l’espressione altrui.
– Servitù è il vero nome di quell’obbedienza che non è virtù.
– Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è l’avarizia.
– Ho voluto più bene a voi (ragazzi, ndr) che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto (testamento).
Una parola va detta su Esperienze pastorali, il testo che lo ha fatto conoscere a tanti, frutto del suo ministero a San Donato di Calenzano. Ordinato prete, dopo una breve parentesi a Montespertoli, Lorenzo era stato nominato cappellano a San Donato, grosso borgo vicino a Prato.
Proposto era don Daniele Pugi, anziano prete che ha sempre voluto capire Lorenzo, difendendolo costantemente benché le nuove idee e iniziative di Lorenzo non fossero sempre conformi alle sue abitudini.
Il libro era uscito a dicembre 1967 (con tanto di Nihil obstat del domenicano padre Reginaldo Santilli, l’Imprimatur di Elia cardinal Dalla Costa, arcivescovo di Firenze, e la prefazione dell’arcivescovo di Camerino, Giuseppe D’Avack). Il “lavoro è dedicato ai missionari cinesi del vicariato apostolico d’Etruria – questa la dedica -, perché contemplando i ruderi del nostro campanile e domandandosi il perché della pesante mano di Dio su di noi, abbiano dalla nostra stessa confessione esauriente risposta”.
“Lui solo vogliano dunque ringraziare della nostra giusta condanna – prosegue – che ad essi ha dato occasione di eterna salvezza. Se dunque da questa umile opera potranno per il loro ministero trovare ammaestramento, non manchino di pregare in cinese il Cristo misericordioso perché dei nostri errori, di cui siamo stati a un tempo vittime ed autori, voglia misericordiosamente abbreviarci la pena”.
Alcune frasi del libro:
– Avevo ormai superato ogni esitazione interiore: la scuola era il bene della classe operaia, la ricreazione era la rovina della classe operaia.
– Il diritto al lavoro discende direttamente dal fatto di avere uno stomaco da riempire, e lo stomaco non l’hanno più grande i buoni che i cattivi.
– Lo sciopero è un’arma. Non ha nulla a che vedere con la beneficienza. Somiglia piuttosto alla spada dei cavalieri medioevali che veniva consacrata sull’altare in difesa dei deboli e degli oppressi.
– Per tutti e 10 i Comandamenti che i preti predicano da due millenni non pare che il popolo italiano mostri molta paura dell’Inferno.
– Mi sopportano (i genitori, ndr) solo per la passione che hanno perché i loro figlioli vengano a scuola.
– Un giorno che s’era intasato un gabinetto del seminario e c’era due servitori a rimediare, sentii per caso il discorso del più giovane di loro: “I signori bisogna servirli tutti: da cima… fino in fondo”.
– Un’ispettrice scolastica che aveva potuto constatare e ammirare il modo e i frutti della nostra scuola, mi fece poi in disparte con convinta serietà questa domanda: “Ma lei non teme di farne poi degli spostati?”.
– Ragazzi io vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio soltanto per darvi l’istruzione e che vi dirò sempre la verità d’ogni cosa, sia che faccia comodo alla mia ditta sia che le faccia disonore.
In Esperienze mi ha sempre colpito rileggere (la mia copia del libro appartiene alle prime. Acquistata da una maestra di Verona, oggi ha 95 anni, che ha insegnato per 40) quanto il cappellano di San Donato scrive a proposito della “motorizzazione” che permetterebbe al fraticello della cerca, con un motore di fare, “più bene”.
«Questa è un’eresia – ribatte don Lorenzo -. Nessuno può dare più di quello che ha. Se è un imbecille (sic) il motore farà arrivare prima e in più posti un imbecille, e se ha poca Grazia il motore moltiplicherà un prete con poca Grazia. Se invece è un santo prete non avrà la superbia di credere che la propria moltiplicazione possa giovare al Regno di Dio. Cercherà dunque piuttosto di demoltiplicarsi.
E se, oltre che un santo prete, è anche un prete proteso verso i più lontani, cioè verso i poveri e specialmente verso quei poveri che alzano il pugno contro di lui e contro i potenti in un unico gesto d’odio, allora il motore gli brucerà sotto il sedere. Vorrà non averne bisogno. Considererà massimo bene il possedere, invece del moltiplicatore meccanico, quella cattedra ineccepibile che è la povertà».
Pellegrino alla tomba di don Lorenzo a Barbiana, adiacente la chiesa di Sant’Andrea a Barbiana, martedì 20 giugno 2017, papa Francesco ha parlato della “passione educativa” di don Milani: “La scuola, per don Lorenzo, non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione”.
“A tutti voglio ricordare – aveva continuato Francesco – che la dimensione sacerdotale di don Lorenzo Milani è alla radice di tutto quanto sono andato rievocando finora di lui. La dimensione sacerdotale è la radice di tutto quello che ha fatto. Tutto nasce dal suo essere prete”.
Francesco raccontò quanto don Bensi, direttore spirituale del giovane Lorenzo, quello dei 20 anni vissuti nelle “tenebre”, come si esprimeva, aveva testimoniato: ‘Per salvare l’anima venne da me. Da quel giorno d’agosto fino all’autunno, si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo’.
«Prima di concludere – sempre papa Francesco -, non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale (…). La Chiesa riconosce nella vita di don Lorenzo un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa».
«Con la mia presenza a Barbiana, con la preghiera sulla tomba di don Lorenzo Milani penso di dare risposta a quanto auspicava sua madre (di origini ebraiche, ndr): “Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui… quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio”».