La storia c’è, è apprezzabile il registro intimo e può dare un piccolo contributo a riportare all’attenzione dell’opinione pubblica la vicenda del colonialismo italiano nel Corno d’Africa, confinato ai margini della memoria collettiva.
L’autore è un giornalista che cerca di ricostruire, sulla base di documenti e testimonianze, qual è stato il percorso di Olga Manente dalla sua nascita nel 1917 in Eritrea alla morte nel 2009 e alla sepoltura nel cimitero di San Massimo, paese alle porte di Verona.
L’innesco che lo spinge a cercare è duplice: una lontana parentela che lo lega a Olga e il fatto che l’Università Ca’ Foscari nel 2018 organizza una mostra sull’ateneo al tempo del fascismo ed emerge una foto di Olga che in quella università si laurea, il 13 novembre 1945, con una tesi orale in francese su Il malato immaginario di Molière.
La protagonista del libro nasce da una relazione tra un soldato italiano, Virginio Manente, e una donna eritrea, Sellass, probabilmente di etnia tigrina.
Un rapporto di madamato (nelle colonie, una convivenza temporanea more uxorio tra un soldato italiano e una nativa: con tutte le implicazioni etiche del caso) che, nei racconti di Virginio alle persone più vicine, si sarebbe risolto così: Sellass si ammalò dopo il parto e il soldato «avrebbe deciso di prendersi cura della bambina e, come dono, di comprare pecore per la comunità della madre».
Certo è che portò Olga con sé in Italia nel dicembre del 1921.