Un libro corale, di più autrici e autori, che mette al centro quel che da tempo è diventato un mantra europeo: limitare gli ingressi delle persone migranti, esternalizzare le frontiere, presidiarle, chiudere. Via libera alle merci ma non a uomini, donne, bambine e bambini. U
na pratica che, per il magistrato Livio Pepino che cura la prefazione di questo testo, si può riassumere con una parola: fuori. Con buona pace di quel che scriveva Kant, che, essendo la terra sferica, l’umanità prima o poi doveva incontrarsi. D’altra parte è in questo modo che è nata l’Europa, con gli esseri in movimento, ed è il motivo per cui è meticcia.
Nessuna politica di blocco mai potrà fermare questo fenomeno storico. Eppure l’Europa si ostina in azioni di blocco, inviando mezzi militari, formando forze di polizia, finanziando campi di confinamento. Su questi ultimi si concentra il libro, su queste realtà sempre più diffuse in Polonia come in Turchia, in Lituania come in Grecia o nei Balcani.
Luoghi di detenzione isolati, spesso periferici, militarizzati e recintati, degradati, in cui viene agita la segregazione sociale e in cui scorrono vite scandite da un tempo immobile.
Campi, che vedono la presenza di due agenzie delle Nazioni Unite: l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr), che, il testo lo sottolinea, finiscono per avere un ruolo controverso rispetto a quella che dovrebbe essere la loro prima responsabilità: garantire diritti. Diritti che invece vengono sempre più esternalizzati.