La scelta di campo del Ciad è forse il segreto peggio custodito dell’attuale guerra in Sudan. Nonostante l’abbondanza di evidenze, N’Djamena continua a professarsi neutrale, e a negare il suo appoggio alle Forze di Supporto Rapido (le RSF, nel loro acronimo inglese), una delle due principali parti belligeranti nel conflitto che dilania il Sudan.
Dietro tanto diniego, si cela una strategia del presidente ciadiano Mahamat Idriss Déby Itno, (detto Kaka) che è eufemistico definire rischiosa. Perché mette in ballo il delicato equilibrio tra le varie comunità alla base del suo potere. E quando quell’equilibrio salta, di solito non si parla di rimpasti di governo, ma di ribellioni armate transfrontaliere.
Spiegazione.
La guerra in Sudan e gli interessi emiratini
Il punto di partenza delle convulsioni ciadiane è la guerra in Sudan. Esplosa nell’aprile 2023, vede lo scontro tra due fronti: da un lato il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo dell’esercito regolare sudanese (in inglese, SAF); dall’altro le già citate RSF, le milizie guidate da Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemeti.
Il conflitto ha una dimensione regionale. L’Egitto e l’Arabia Saudita hanno preso le parti delle SAF; gli Emirati Arabi Uniti quelli delle RSF.
Restiamo sugli Emirati, il paese di gran lunga più attivo nel conflitto sudanese. Abu Dhabi punta su Hemeti, a cui lo legano anni di affari fatti insieme, in particolare, riguardo all’oro del Darfur.
La scommessa della petromonarchia del golfo su di lui fa parte di una ambizione più ampia, quella di espandersi nel Mar Rosso, su cui si affaccia il Sudan, per imporsi nelle infrastrutture portuali e dominare la logistica dei commerci. È un piano che a sua volta rientra nella più ampia strategia emiratina di penetrazione continentale. Abu Dhabi vede l’Africa come un terreno privilegiato in cui trovare materie prime, merci e assicurare la sua sicurezza alimentare. Il tutto sotto il mantra della diversificazione dell’economia, per affrancarla dal greggio e continuare a prosperare in un’economia post-risorse fossili. Non a caso, negli ultimi dieci anni, è stata tra i primi 4 paesi per investimenti in Africa, come riportato in un recente articolo del Financial Times.
Il traffico di armi clandestino più noto al mondo
Appoggiare una fazione in guerra significa anche rifornirla di armi e munizioni. Gli Emirati se ne occupano con solerzia. Report ONU, inchieste giornalistiche e di organizzazioni internazionali hanno ricostruito il traffico di armi che da Abu Dhabi arriva all’aeroporto di Am Djarass, una località nell’est del Ciad e feudo del clan Deby, per poi proseguire via terra nel confinante Darfur.
Tale percorso è alla base del segreto che il Ciad si rifiuta di riconoscere. E che avviene, tra l’altro, in violazione dell’embargo Onu (bellamente ignorato da mille altre fazioni in gioco) sull’invio di armi in Darfur.
Per tentare di farle ammettere l’evidenza, a inizio novembre, il governo sudanese è ricorso alla Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli dell’Unione Africana, denunciando il Ciad per il suo «ruolo essenziale nei crimini commessi dalle milizie ribelli [le RSF, ndr]».
Al pari delle altre accuse, il governo ciadiano le rigetta sistematicamente, riaffermando la linea della neutralità mantenuta sin dal principio.
«Non supportiamo nessuna delle fazioni in lotta sul territorio sudanese. Il Ciad non ha alcun interesse ad amplificare la guerra in Sudan fornendo armi» ha ribadito Abderaman Koulamallah, Ministro degli esteri ciadiano, in una recente intervista all’emittente francese RFI, in cui aggiungeva che «siamo il principale paese a sostenere il peso di questa guerra».
Gli Emirati prendono in prestito il Ciad
Da un lato, l’enorme impatto del conflitto sul Ciad è innegabile. Secondo l’UNHCR 700,000 profughi sono arrivati dal Sudan dallo scoppio del conflitto. Si tratta del più grande afflusso di rifugiati nella storia del paese, che già accoglie 400,000 sudanesi scappati dai conflitti precedenti.
Dall’altro, va detto che un interesse diretto il Ciad ce l’ha. E prende la forma di una linea di credito emiratina.
A maggio dell’anno scorso, circa un mese dopo lo scoppio del conflitto, Abu Dhabi ha concesso un prestito di $1,5 miliardi a N’Djamena. Una somma del genere, in uno stato dal budget annuale di $1,8 miliardi, può far cambiare idea su tanti argomenti, come quella di limitare il coinvolgimento nel ginepraio sudanese.
In poche parole, «il Ciad si è piegato ai bisogni degli Emirati Arabi Uniti», come riassume per Nigrizia Alessio Iocchi, ricercatore presso la Statale di Milano e docente a Napoli dell’Università Federico II e dell’Orientale.
E così, di lì a poco, è iniziato il traffico di casse da Am Djarass verso il Darfur.
I primi massacri lontani dagli occhi e dal cuore
«Inizialmente, l’invio di armi alle RSF non ha creato problemi a Kaka. Nei primi tempi del conflitto, le forze di Hemeti hanno concentrato le loro operazioni militari (con annessi massacri e crimini di guerra) contro comunità non rilevanti per il Chad – Enrica Picco, Direttrice di progetto per l’Africa centrale all’International Crisis Group (ICG) spiega a Nigrizia – «Anche quando le RSF compivano stragi nel confinante Darfur, le vittime appartenevano principalmente alla comunità Masalit, che non è vicina ai circoli di potere di Kaka».
Le cose sono cambiate nel maggio 2024, aggiunge Picco, «appena le RSF hanno iniziato a combattere contro la comunità chiave del consenso di Deby: gli zaghawa».
Per capire l’importanza e le ripercussioni di una tale evoluzione, bisogna prima gettare un’occhiata alla base di potere di Kaka.
Le colonne mobili del consenso di Deby
Il presidente ciadiano poggia il suo consenso su vari gruppi etnici e tribù. Tra le principali ci sono i gourane (a cui appartiene sua madre) e la tribù araba dei rizeigat. Per dare un’idea dell’intreccio familistico tra Ciad e Sudan, vale la pena notare che tra i rizeigat troviamo una figura come Bichara Issa Jadallah, membro centrale dell’apparato militare ciadiano, nonché cugino diretto di Hemeti (appartenente alla stessa comunità).
Ma il gruppo più importante in assoluto è quella dei zaghawa. Ne faceva parte lo stesso padre di Kaka, Idriss Itno Deby, morto in battaglia nel 2021, dopo 30 anni di guida del paese, che è passato così dal comando di Deby padre (Idriss) a Deby figlio (Mahamat).
Gli zaghawa tra Ciad e Sudan
Al pari degli altri gruppi, gli zaghawa sono presenti sia in Ciad che in Sudan, dove si trovano in particolare nel Nord Darfur. Lì, formano la maggioranza dei gruppi ribelli che dai primi anni 2000 ha lottato contro il governo centrale sudanese, reclamando più attenzione e risorse per la regione. Ad armarli, era stato il Ciad di Deby padre, con cui avevano legami molto stretti, anche familiari.
La loro lotta li ha visti scontrarsi con i Janjaweed, i paramilitari autori del genocidio nel Darfur del 2003-5. Dettagli non secondario: i ‘’demoni al cavallo’’ (questa la traduzione di janjaweed) erano guidati da Hemeti e in seguito sono stati ribattezzati RSF.
Dopo il 2005, la conflittualità nella regione rimaneva alta, ma si era attenuata abbastanza da arrivare a siglare gli Accordi di pace di Juba, nel 2020, tra l’allora governo di transizione sudanese e alcuni dei principali gruppi ribelli. Quest’ultimi si impegnavano a deporre le armi in cambio dell’integrazione nella vita politica.
Il punto di svolta: l’assedio di El Fasher
La loro non bellicosità aveva retto anche allo scoppio dell’attuale conflitto; i gruppi ribelli si erano dichiarati neutrali rispetto ad al-Burhan ed Hemeti.
Ma le tensioni si sono prima riaccese a partire dal novembre 2023, con l’intensificarsi delle azioni militari delle RSF. Poi sono esplose del tutto, nel maggio seguente, quando le truppe di Hemeti hanno iniziato l’assedio di El Fasher, la capitale del Darfur del Nord, nonché la città con la più alta percentuale di zaghawa sudanesi.
A quel punto i gruppi firmatari dell’Accordo di Juba hanno rotto la loro neutralità e si sono schierati con le SAF, e quindi riprendendo di fatto le ostilità contro i janjaweed, oggi presenti nella forma maggiorata di RSF.
Tutte ragioni per cui si può facilmente immaginare che agli zaghawa ciadiani d’oggi non piaccia vedere Kaka inviare armi agli sgozzatori degli zaghawa sudanesi (nonché di molte altre comunità) d’allora.
L’omicidio del cugino Dillo Djerou
L’irritazione zaghawa è stata poi acuita da un’altra decisione forte del giovane Deby: l’uccisione nel febbraio scorso di uno zaghawa illustre: suo cugino Yaya Dillo Djerou.
Quest’ultimo era un militare e politico che raccoglieva il malcontento di chi non aveva digerito la presa di potere di Kaka alla morte di Deby padre, di cui lo stesso Djerou si sentiva un potenziale successore.
È finito ucciso nella sede del suo partito a N’Djamena, in un raid dell’esercito. Per le autorità ciadiane, la morte è avvenuta a causa della sua resistenza alle forze dell’ordine e al susseguente scambio di colpi di fuoco. Per l’opposizione si è trattata di una vera e propria esecuzione. Il tutto a tre mesi dalle elezioni presidenziali che hanno incoronato Kaka come Presidente della Repubblica.
Più spazio ai gourane
Un’altra ragione di risentimento per gli zaghawa è la riduzione della loro importanza nella cruciale sfera della sicurezza, sempre per opera di Deby figlio.
Tra le mosse più evidenti in questo senso, c’è stata «quella di allargare la base di potere ai gourane – spiega Picco a Nigrizia – che sono i principali elementi nelle Forze di Intervento Rapido (Fir), un corpo d’elite creato l’anno scorso».
È una mossa che punta a ridurre il peso del principale apparato di sicurezza statale, la Direzione generale dei servizi di sicurezza delle istituzioni dello stato (Dgssie), a maggioranza zaghawa.
La creazione delle Fir rientra anche nella più ampia manovra di Deby di rafforzare la sua presa sul sistema di intelligence e sicurezza. La maggior parte degli analisti legge così il suo giro di nuove nomine ai vertici di polizia, gendarmeria e esercito di metà ottobre. Pochi giorni prima aveva anche sostituito il Ministro della sicurezza Mahamat Charfadine Margui (uno zaghawa) con il generale Ali Ahmat Akhabache (appartenente ad una comunità araba).
Il rischio calcolato di Deby
Dunque tutto sotto controllo per il giovane Deby? Non proprio. Le linee di faglia sono almeno due.
La più evidente ha a che fare con la possibilità di una rivolta zaghawa. Per Picco «il rischio a medio-lungo termine è che se il Darfur si calma, si possa formare una ribellione anti-Deby dal Darfur, come è già avvenuto in passato, nel 2006 e nel 2008, contro Deby padre. Per ora però il Nord Darfur è in guerra, e non c’è capacità di attaccare N’Djamena.»
Al momento, questo rischio per il clan Deby-figlio è quantomeno calmierato dalla linea di credito degli Emirati. Il già citato prestito di $1,5 miliardi permette a Deby «non solo di mandare avanti lo Stato, ma anche di pagare profumate buonuscite ai membri degli apparati di sicurezza che manda in pensione» aggiunge Picco. Un modo sempreverde di ridurre il fronte degli scontenti.
Ma è lo stesso legame economico con Abu Dhabi a rappresentare l’altra linea di faglia. Iocchi sottolinea come «gli Emirati finanziano molto, ma in base ad una politica dai criteri volatili. Lo hanno dimostrato in Sudan con al-Bashir: lo hanno appoggiato per qualche tempo, per poi scaricarlo in un attimo».