Chérif Mahamat Zene era una figura chiave per tenere insieme quel dialogo inclusivo che secondo la giunta militare del Ciad, al potere dall’aprile 2021 dopo la morte del presidente Idriss Déby, dovrebbe condurre al voto e a un governo gestito da civili.
Ma Mahamat Zene si è dimesso ieri dalla sua funzione di ministro degli esteri con questa motivazione: «Da alcuni mesi, il mio impegno e la mia volontà di servire il paese sono ostacolati da iniziative e azioni parallele di alcuni membri della giunta militare e del governo. Queste interferenze hanno lo scopo di impedirmi di esercitare le mie funzioni e mi riducono al ruolo di una semplice comparsa».
Si tratta di una figura di primo piano della politica maliana e ha avuto ruoli rilevanti come ambasciatore (anche alle Nazioni Unite) e come ministro sia con Déby padre sia con il figlio Mahamat Idriss Déby Itno che si è autonominato presidente di questa fase di transizione.
Le dimissioni rischiano di incrinare l’insieme dell’architettura di mediazione, peraltro boicottata dal grosso dei partiti di opposizione, che la giunta militare ha messo in piedi. È stato infatti Mahamat Zene a convincere una quarantina di gruppi ribelli a sottoscrivere un accordo di pace lo scorso 8 agosto a Doha (Qatar) e a partecipare al dialogo inclusivo iniziato il 20 agosto a N’Djamena e ancora in corso.
Evidentemente nel governo nominato dalla giunta militare – subito dopo la presa del poter i militari avevano dissolto i parlamento, abrogato la costituzione e destituito il governo – ci sono valutazioni diverse sul lavoro compiuto dall’ex ministro degli esteri. Per esempio, non è riuscito a far sedere al tavolo del dialogo inclusivo due dei tre movimenti ribelli più radicati e solidi.
Di questo passo è difficile che la transizione si chiuda al termine dei 18 mesi, come dichiarato dalla giunta, e quindi che si vada al voto in tempi brevi.