Esattamente due anni fa, il 4 novembre 2020, cominciava la guerra del Tigray combattuta tra il governo centrale dell’Etiopia e il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf). Un conflitto annunciato da anni di dichiarata ostilità e tensioni politiche tra il governo di Addis Ababa e la regione dell’estremo nord del paese.
Una guerra che si è poi allargata ad altri attori (e alleati) come le regioni confinanti Afar e Amhara, e l’Eritrea – coinvolgimento, quest’ultimo, negato a più riprese dal primo ministro etiopico, Abiy Ahmed, anche se ormai ampiamente smentito dall’evidenza. L’ampliarsi del quadro delle parti in lotta non ha fatto che aumentare le violenze e gli abusi nei confronti della popolazione civile.
Come più volte denunciato sia dalle agenzie delle Nazioni Unite che dalle ong impegnate a difesa dei diritti umani. Senza parlare della crisi dei profughi e degli sfollati che il conflitto ha provocato. Già lo scorso anno (e quindi in soli 12 mesi dall’inizio delle ostilità) si segnalavano 5,1 milioni di sfollati interni mentre l’area rimane tagliata fuori da cibo, acqua e assistenza medica.
In questo contesto tenta di inserirsi la mediazione della Cina che lo scorso giugno ha tenuto una “conferenza di pace” con l’obiettivo di facilitare un processo di pacificazione, appunto, non solo in Etiopia ma nell’intero Corno d’Africa. La conferenza – ospitata congiuntamente da Etiopia e Kenya e alla quale hanno partecipato leader di Gibuti, Somalia, Sud Sudan, Sudan e Uganda – è servita a definire un programma ambizioso che include l’“invito” alla Cina ad assistere nella risoluzione dei conflitti in queste aree.
Incontro avvenuto mentre Abiy si trovava nel pieno delle pressioni da parte dei suoi partner occidentali per presunte violazioni dei diritti umani commesse dalle forze etiopiche nel Tigray, e pochi mesi dopo la sospensione dell’Etiopia dall’Africa Growth and Opportunity Act (Agoa), che fornisce ai paesi africani l’accesso ai mercati statunitensi.
Ma non sono pochi i punti critici e le perplessità degli osservatori ad un piano di azione che, secondo molte analisi, tra cui quella di Africa Center, più che un’opera di diplomazia sembra essere un tentativo di silenziare proteste e contrasti interni in nome della “pace per lo sviluppo”, non mettendo d’accordo le parti ad un tavolo di scambio, trattative e dialogo, ma imponendo un certo tipo di pace in nome della sicurezza. Sicurezza indispensabile per costruire e allargare la propria presenza geostrategica nei vari paesi dell’area e nello stesso tempo continuare con gli affari e gli investimenti.
L’Etiopia è uno dei partner africani militari ed economici più vicini alla Cina. Senza contare quel debito di 13,7 miliardi di dollari contratti dal 2020 con istituti di credito cinesi. Inoltre, la Belt & Road Initiative rimane il punto centrale delle prospettive di crescita (ed influenza) della Cina in Africa.
Solo l’Etiopia ospita 400 progetti, per un valore di oltre 4 miliardi di dollari e centinaia di appaltatori presso la Gerd, la “diga della discordia”, la più grande dell’Africa e che sta provocando grandi tensioni con Egitto e Sudan sull’uso delle acque del Nilo. È chiaro che un accordo sul conflitto nel Tigray mediato dalla Cina – alla sua maniera, cioè fortemente inclinata a favore del governo etiopico – tende esclusivamente a ristabilire la sicurezza in modo da non intralciare i piani di investimento.
Insomma, legami economico-finanziari che connettono a doppio filo il leader etiopico con la controparte cinese e viceversa. Come può esserci una mediazione reale, bilanciata e neutrale con queste premesse? A domandarselo sono in molti. Oltretutto anche i fatti parlano chiaro.
In questi mesi l’inviato speciale della Cina nel Corno d’Africa, Xue Bing, ha visitato parecchie volte la regione ma pare che non abbia incontrato esponenti del Tplf né che ci sia stato un effettivo coordinamento con le iniziative di mediazione a guida africana, quelle portate avanti dall’Alto rappresentante dell’Unione Africana per il Corno d‘Africa, Olusegun Obasanjo, o l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) e attori internazionali come le Nazioni Unite. Che dal 25 ottobre hanno portato per la prima volta i contendenti attorno a un tavolo in Sudafrica.
Un “mandato” che la Cina ha dunque ricevuto dai singoli leader che hanno partecipato a quell’incontro di giugno. Ricordiamo anche che già nel dicembre del 2021 il ministro degli esteri cinese, Wang Yi, in occasione del forum sulla cooperazione cino-africana, aveva chiaramente espresso il sostegno del suo paese al primo ministro etiopico.
Tutte cose evidentemente incompatibili con il ruolo conferito alla Cina e in un certo senso auto conferitosi. Nel 2014 l’Unione Africana pubblicò una versione aggiornata del testo che indica i metodi e le caratteristiche della mediazione in caso di conflitti. 12 linee guida che includono imparzialità, inclusione di tutti gli attori politici, coinvolgimento della società civile e affrontare le cause profonde del conflitto.
Tutti aspetti che non rientrano nel tipo di approccio della Cina. Un tipo di approccio – fanno notare gli analisti – che rischia non solo di essere inefficace ma controproducente. Anche per quanto riguarda le relazioni diplomatiche.
La proposta unilaterale di mediazione di Pechino arriva in un momento in cui c’è tensione riguardo quella che viene definita “interferenza dell’Occidente” negli affari interni di singoli paesi africani – cosa dichiarata dallo stesso inviato speciale della Cina nel Corno d’Africa – e che quindi mira in parte a sostituire la diplomazia occidentale nella regione.