Con il logo firmato Lorenzo Mattotti, la 79° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia celebra “una leonessa che vola attraverso la storia con energia e leggerezza, simbolo di speranza, lontano dall’aggressività e dalla ferocia”, allineandosi così al trend femminista degli altri Festival di serie A.
Uno sguardo ai titoli nelle varie sezioni conferma come la tematica femminile unita a quella dell’identità di genere abbia un peso determinante. Non manca naturalmente l’Ukrainian Day né la voce di protesta contro l’arresto dei registi iraniani Jafar Panahi, Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad, a ricordare come il cinema non sia solo intrattenimento e glamour.
Il cinema dell’Africa subsahariana è invece purtroppo assente, mentre sembra ormai consolidata la presenza di registi del Maghreb e afrodiscendenti.
Il peso delle origini
Partendo dal Concorso, il titolo più interessante è Saint Omer di Alice Diop talentuosa documentarista francese di origine senegalese che, affiancata dalla scrittrice Marie Ndiaye, parte da un drammatico fatto di cronaca per affrontare, con un occhio alla Medea di Pasolini, il lato più oscuro della maternità.
Anche Athena di Romain Gavras guarda alla tragedia greca per raccontare la rivolta in una periferia urbana assediata dalla polizia. Sceneggiato insieme a Ladj Ly (Les misérables) il film cavalca, forse senza grande originalità, il filone delle periferie in fiamme.
Les miens di Roschdy Zem sceglie invece un racconto di famiglia per evitare distorsioni culturali o religiose, sempre troppo presenti quando si parla di una generazione di origine immigrata.
La sezione Orizzonti ha inaugurato con Princess di Roberto De Paolis, storia di una giovane immigrata irregolare nigeriana che, come molte altre sue connazionali, per sopravvivere è costretta a prostituirsi. Il regista dichiara di aver costruito il film fondendo il suo punto di vista con quello di alcune ragazze nigeriane vittime di tratta che oltre a interpretare se stesse hanno contribuito a scrivere la sceneggiatura.
In Pour la France di Rachid Amid una famiglia lotta per ottenere giustizia per la morte di Aissa, giovane ufficiale di origini algerine vittima di un rito di iniziazione delle matricole nella prestigiosa accademia militare francese di Saint-Cyr. Il regista si ispira ad una vicenda molto personale, la morte del fratello, per affrontare uno scottante argomento politico.
Con il corto Sahbety (La mia amica) Kawthar Younis esamina da vicino una coppia che, motivata dall’amore e ostacolata dalle convenzioni di genere, gioca a invertire le parti.
Queens
La Settimana Internazionale della critica chiude con Queens, primo lungometraggio della marocchina Yasmine Benkiran. On the road al femminile sulla fuga di tre donne che per sfuggire alla polizia attraversano le montagne dell’Atlante per raggiungere l’Atlantico.
Una fuga di una donna è al centro anche di Les damnés ne pleurent pas di Fyzal Boulifa, presentato alla Giornata degli autori. Fatima-Zahra e il figlio adolescente Selim si spostano da un luogo all’altro, cercando sempre di sfuggire all’ultimo scandalo nel quale la madre è coinvolta. I sogni che si profilano all’orizzonte però sono troppo fragili così come l’amore che lega madre e figlio.
Nella stessa sezione El Akhira la derniere reine opera prima di Adila Bendimerad e Damien Ounouri racconta, tra storia e leggenda, le vicende della regina Zaphira nell’Algeria del 1516.
In Dirty difficult dangerous Wissam Charaf sceglie il melodramma per denunciare la situazione dei rifugiati e il razzismo nella società libanese. A Beiruti Ahmed, un rifugiato siriano, e Mehdia, un’immigrata etiope che lavora come domestica, vivono un amore clandestino. Quando decidono di fuggire alla disperata ricerca di una vita migliore le condizioni di salute di Ahmed cominciano però a peggiorare.
Musica e Sankara
Due i documentari che raccontano come nell’Africa contemporanea la musica sia sempre più legata alle lotte politiche delle giovani generazioni.
Presentato Fuori Concorso Bobi Wine: Ghetto President di Christopher Sharp e Moses Bwayo segue in tempo reale la vita di Bobi Wine e di sua moglie Barbie. Bobi usa la musica come forma di attivismo e dagli slum di Kampala diventa un membro indipendente del parlamento, per difendere i diritti della sua gente e denunciare i soprusi del presidente Museveni un autocrate al potere dal 1986.
Ne Il paese delle persone integre Christian Carmosino Mereu partendo dalla rivoluzione iniziata nell’ottobre del 2014 nelle strade di Ouagadougou racconta la ricerca di libertà di quattro cittadini burkinabè: un musicista leader della rivoluzione (l’icona della scena reggae Sams’K Le Jah), un candidato alle imminenti elezioni, un minatore impegnato nella lotta sindacale e una madre che deve occuparsi di una famiglia povera e numerosa.
Dalle immagini in bianco e nero delle giornate di rivolta popolare che hanno portato alla cacciata del dittatore Blaise Compaoré alla cronaca degli anni successivi che hanno visto susseguirsi due colpi di stato (nel maggio 2015 e nel gennaio 2022) il documentario racconta della lotta di un popolo che non ha dimenticato il lascito Thomas Sankara, il cui ricordo è ancora vivissimo nella popolazione.
Il film è disponibile alla visione fino alle 22.00 di venerdì 9 settembre sulla piattaforma Mymovies e sarà in sala all’interno delle rassegne che presentano alcuni titoli del Festival di Venezia nelle sale di Milano e Roma.