Quante volte è capitato, anche a chi scrive, di provare un certo imbarazzo nei confronti della logica dei diritti umani applicata a contesti africani.
Logica che si limita a indicare i colpevoli di atrocità e di chiederne la punizione (il tribunale) senza preoccuparsi di risalirne le radici, quasi fossero atti di delinquenza collettiva o individuale.
L’autore di questo saggio, che insegna a Columbia University e si dedica allo studio comparativo del colonialismo tra scienze politiche e antropologia, ci toglie d’imbarazzo: «Nella condizione postcoloniale, la violenza estrema è molto spesso una violenza nazionalistica, poiché i gruppi etnici, organizzati come unità tribali separate sotto il colonialismo, si contendono l’accesso privilegiato ai beni pubblici. I diritti umani ignorano questo sfondo storico, depoliticizzando così la violenza e trattandola come mera criminalità».
Analizzando quattro modelli – Nord America, Sudan, Sudafrica e Israele – il libro indaga su come lo stato-nazione e lo stato coloniale, con ricadute sullo stato postcoloniale, si sono costituiti escludendo dalla comunità politica interi gruppi umani.
È accaduto in Nord America dove l’insediarsi dei coloni europei ha causato l’eliminazione fisica di gran parte dei nativi indiani e relegato i restanti in “patrie tribali”.
Un esempio, quello della soluzione della “questione indiana”, che è stato seguito dalla Germania di Hitler quando si è trattato di gestire la questione ebraica.
È accaduto anche in Israele, dove i coloni sionisti espropriano i palestinesi della terra e dei diritti.
È accaduto nel Sudan dell’indipendenza che possiede leggi che vincolano i diritti degli individui alla loro appartenenza etnica.
L’autore ritiene che «solo quando il sistema politico sarà decolonizzato, cioè quando le identità culturali, etniche e razziali saranno svincolate da status permanenti di maggioranza e di minoranza, esso sarà in grado di garantire equità».
E contesta che il modello liberaldemocratico debba essere considerato l’esito finale dello sviluppo politico.
Il movimento anti-apartheid in Sudafrica viene indicato come esempio da studiare in quanto ha saputo ripensare la comunità politica: individuando la violenza dell’apartheid come violenza politica, si è mosso cercando soluzioni politiche, non riducendo tutto a un fatto criminale.
Ciò consentì di attuare una fine negoziata dell’apartheid e di costituire nel 1994 (pur con tutti i limiti e le fragilità) una democrazia non razziale. «Con questo approccio politico, i sudafricani hanno riconfigurato i ruoli di “carnefici” e “vittime” – insieme a “beneficiari” e “spettatori” – in un’unica categoria completamente nuova: i “sopravvissuti”».
Che sono stati in grado di sedersi al tavolo della trattativa.
Esattamente il contrario di ciò che sta avvenendo in Rwanda, dove, dopo il genocidio del 1994, è ancora in corso la caccia ai genocidari, e maggioranza e minoranza politica sono cristallizzate.
Un contributo davvero rilevante quello del professor Mamdani, che non si arrende a «un mondo di minoranze permanenti, riprodotte dalla politicizzazione dell’identità sotto la struttura dello stato-nazione».
E fornisce tre raccomandazioni. Riformare la base nazionale dello stato, garantendo un solo tipo di cittadinanza e facendolo sulla base della residenza piuttosto che dell’identità.
Denazionalizzare gli stati attraverso l’istituzione di strutture federali.
Rafforzare la democrazia al posto dei rimedi neoliberali sui diritti umani.