L’esperimento delle cosiddette “navi quarantena” ha recentemente compiuto un anno. Il 12 aprile del 2020, un decreto del capo della protezione civile autorizzava, fino al termine dell’emergenza sanitaria, l’utilizzo delle navi per lo svolgimento del periodo di sorveglianza sanitaria delle persone soccorse in mare da navi straniere al di fuori della zona Sar italiana. Pochi giorni prima, il 7 aprile, un decreto dei ministeri di Trasporti, Interno e Salute definivano “non sicuri” i porti italiani per lo sbarco di persone soccorse al di fuori della zona di ricerca e soccorso italiana, da navi battenti bandiera straniera.
Prendeva così avvio uno dei più inquietanti esperimenti europei di confinamento dei cittadini stranieri. Con procedura di aggiudicazione diretta sono state individuate alcune navi appartenenti a società private, e la Croce rossa italiana, su incarico del ministero dell’Interno, le ha adibite a luoghi di quarantena. A partire dal 17 aprile dello scorso anno, diverse migliaia di cittadini stranieri sono stati trattenuti a bordo delle navi per diverse settimane, spesso molto più a lungo di quanto la “quarantena” richiedesse.
L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), nell’ambito del Progetto In Limine, ha recentemente pubblicato un report redatto a partire dalle informazioni ricevute nel corso di 82 interviste a persone transitate sulle navi quarantena tra aprile e novembre 2020 e nell’ambito del più ampio lavoro di assistenza legale svolto a supporto delle persone in arrivo.
Un utilizzo discutibile
Ne emerge un quadro desolante, caratterizzato da carenze sistemiche nell’accesso all’assistenza medica, alle informazioni e ai diritti. Proprio in questo contesto tre cittadini stranieri hanno perso la vita: il 20 maggio 2020, Bilal Ben Massaud, di 28 anni, si è buttato in mare per raggiungere a nuoto la costa, rimanendo così ucciso. All’inizio di ottobre 2020 Abou Diakite, un ragazzo di 15 anni, è morto a seguito di un ricovero d’urgenza, intervenuto solo dopo molti giorni di isolamento sulla nave GNV Allegra. Poco tempo prima, il 15 settembre, Abdallah Said, di 17 anni, moriva per un’encefalite tubercolare all’ospedale Cannizzaro di Catania, dove era stato trasferito dopo un periodo di isolamento sulla nave quarantena GNV Azzurra.
Nonostante le evidenti criticità, il sistema delle navi quarantena è stato utilizzato in maniera quasi esclusiva, e tendenzialmente espansiva, per l’isolamento fiduciario delle persone che entrano nel paese senza possedere i requisiti per l’ingresso regolare. Nel gennaio 2021 il ministero dell’Interno, con il bando per l’aggiornamento delle navi da destinare all’isolamento sanitario, prevedeva che il “servizio” potesse essere “esteso anche ai migranti che giungono sul territorio nazionale in modo autonomo attraverso le frontiere terrestri”.
Nei mesi precedenti, il ministero dell’Interno, grazie al sostegno della Croce rossa, aveva condotto sulle navi quarantena centinaia di cittadini stranieri risultati positivi al Covid-19 già titolari di protezione o in possesso di altri titoli di soggiorno, che si trovavano in centri di accoglienza sparsi sul territorio italiano.
Tali trasferimenti sono stati disposti sulla base di provvedimenti non individuali, con cui veniva ordinato lo spostamento sulle navi di un certo numero di “migranti positivi al Covid” ospitati in centri di accoglienza in differenti province italiane. Alcuni cittadini stranieri sottoposti a tale misura hanno riportato di essere stati trasferiti nel cuore della notte senza aver ricevuto alcuna informazione e senza la notifica di alcun provvedimento che indicasse condizioni, durata o base giuridica della misura.
Tra controllo e confinamento
L’esperimento delle navi quarantena esaspera e aggrava le pratiche lesive dei diritti, attuate nell’ambito del cd. “approccio hotspot”, un dispositivo di controllo, confinamento e selezione della mobilità in ingresso che è stato dispiegato in Italia e in Grecia. Negli hotspot, individuati alle frontiere italiane e greche nel 2015 – che avrebbero dovuto operare solo per il periodo definito di “crisi migratoria” – sono stati istituiti spazi e procedure finalizzate all’identificazione rapida dei migranti in ingresso e allo “smistamento” verso le operazioni di rimpatrio e verso i sistemi di accoglienza e valutazione delle domande di asilo.
Questo sistema, in Italia, si è caratterizzato per l’utilizzo sistematico della detenzione arbitraria nella fase di identificazione dei migranti e per il ricorso illegittimo a meccanismi informali di individuazione delle persone che hanno accesso alla domanda di asilo basato sulla nazionalità.
Queste modalità sono state riprodotte nell’esperienza delle navi quarantena. Oltre alle gravi violazioni insite nell’approccio hotspot, sulle navi le persone sono state sottoposte a una forma ulteriore di confinamento e limitazione della libertà personale. Il grave isolamento a cui i migranti sono costretti a bordo non gli consente di entrare in contatto con avvocati, organizzazioni della società civile o altri soggetti che potrebbero sostenerli all’inizio del loro percorso in Italia.
Trattamento diseguale e arbitrario
A saltare agli occhi è inoltre la profonda iniquità di questa misura, se confrontata con le modalità con cui chi arriva in Italia in aereo o chi è in possesso dei requisiti di ingresso è tenuto a svolgere il periodo di isolamento sanitario precauzionale: nelle loro case o alberghi, senza l’imposizione di una coercizione fisica e materiale come quella a cui sono sottoposti i migranti che entrano in assenza dei requisiti richiesti.
I migranti, dopo essere stati identificati – di norma a Lampedusa -, sono trasferiti nelle navi e, dopo il periodo di quarantena, sono condotti sulla terraferma per essere poi trasportati nei centri di detenzione ed espulsione se considerati irregolari o nelle strutture di accoglienza se considerati richiedenti asilo. Le procedure attraverso le quali la loro situazione giuridica è determinata sono gravemente inique e spesso confuse. In numerosi casi, sono stati sottoposti a questo trattamento anche i bambini e i ragazzi minori che viaggiavano soli.
Come emerge dal report, l’utilizzo delle navi comporta il trattenimento arbitrario dei migranti in condizioni gravemente inadeguate, il ricorso sistematico a meccanismi di selezione informali e iniqui e il ritardo, se non l’esclusione, nell’accesso ai diritti fondamentali quali l’asilo, la salute, l’informazione e la difesa.
Come già avvenuto per i centri hotspot, il rischio è che il sistema delle navi venga assorbito nella gestione ordinaria degli arrivi dei cittadini stranieri. Occorre vigilare affinché ciò non avvenga.