Crisi climatica: l’Africa punta sul business dei crediti di carbonio
Ambiente COP Kenya
Africa Climate Summit. Critiche al mercato dei carbon credits
Crisi climatica: l’Africa punta sul business dei crediti di carbonio
Sempre più paesi del continente - Kenya in testa - guardano con entusiasmo alla possibilità di incassare miliardi di dollari favorendo “il mercato del carbonio” che permette alle industrie inquinanti di continuare a farlo. Un sistema aspramente criticato da società civile, ambientalisti e analisti che da tempo denunciano le relazioni tra produzione di crediti di carbonio, land grabbing, violazioni dei diritti umani e corruzione
19 Settembre 2023
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 6 minuti

Al summit africano sul clima (Africa Climate Summit) il mercato dei crediti di carbonio è stato tra i più importanti argomenti all’ordine del giorno.

Tra i maggiori sostenitori, il presidente kenyano William Ruto – lo stesso che di recente ha rimosso il divieto di disboscamento -, padrone di casa del vertice che si è svolto dal 4 al 6 settembre a Nairobi.

Nel suo discorso inaugurale ha parlato delle risorse africane che intrappolano il carbonio – foreste, pascoli, savane, boschi di mangrovie e tanto altro – come di una fonte potenziale di somme enormi: «Abbiamo … risorse che possono contribuire a decarbonizzare l’economia globale, queste risorse sono contabilizzabili in miliardi di dollari».

Nei giorni precedenti all’apertura dell’incontro, il parlamento kenyano aveva approvato diversi emendamenti alla legge del paese sul cambiamento climatico, delineando, tra l’altro, proprio un quadro di riferimento legale volto a facilitare il mercato dei crediti di carbonio.

Altro particolare con ogni probabilità non casuale, il presidente Ruto aveva nominato CEO del summit Joseph Ng’ang’a, che tra le sue diverse cariche e competenze ha anche quella di essere cofondatore e membro del comitato direttivo della Africa Carbon Markets Initiative (ACMI).

Ѐ l’iniziativa lanciata durante la scorsa convenzione Onu sul clima, COP 27, che si propone di “aiutare, configurare e guidare la possibilità di scambi basati sui crediti di carbonio in Africa”.

Dal dibattito che si è sviluppato nei giorni scorsi, sembrerebbe insomma che i governi africani favorevoli allo sviluppo del carbon market pensino di poter incassare una buona parte dei fondi che si sono impegnati ad utilizzare per la transizione all’energia rinnovabile, vendendo crediti di carbonio.

Illuminante una dichiarazione della ministra kenyana per l’ambiente, Soipan Tuya. Il summit «sarà su risorse e capitali. L’Africa mostrerà le sue risorse al mondo e inviterà il mondo a portare in Africa i suoi capitali se davvero vogliamo affrontare la crisi climatica». Frase riportata a pagina 4 di un rapporto dell’Oakland Institute citato più avanti.

Ma l’idea è stata aspramente criticata dagli esperti e dalla società civile. Il Daily Nation, in un articolo pubblicato il 7 settembre, sommarizza il dibattito con le seguenti parole: “Mentre l’Africa ha bisogno di fondi per la crisi climatica, non dovrebbe ottenerli permettendo agli inquinatori di continuare ad inquinare”.

Laurence Tubiana, direttrice esecutiva della Fondazione europea per il clima, afferma, tra l’altro, che al mercato dei crediti di carbonio serve una revisione e che per ora può essere considerato come una falsa soluzione.

Colonialismo verde

Insomma “un lupo sotto le spoglie di una pecora”, dice un rapporto preparato da diverse organizzazioni della società civile, che aggiunge: “Il clamore attorno al carbon market sta creando in Africa il Far West per un nuovo tipo di imprenditore il cui solo scopo è produrre crediti di carbonio”.  

Mentre è chiaro che “i progetti che producono crediti di carbonio … non annullano le emissioni delle industrie inquinanti che li comprano. In pratica, l’impatto netto è l’aumento della crisi climatica che devasta i paesi africani”.

Le piantagioni di alberi, molto spesso di specie non autoctone ma utili alla produzione di legname cui sono generalmente finalizzate, sono tra le misure più popolari e diffuse nel continente per la creazione di opportunità da “spendere” sul mercato dei crediti di carbonio.

Queste “foreste artificiali”, definite da qualcuno anche come “deserti verdi” per la visibile perdita di biodiversità nel loro sottobosco, vengono descritte come episodi di colonialismo verde dall’Oakland Institute, specializzato nella difesa dei diritti alla terra, in particolare dei popoli nativi e delle comunità rurali più fragili, e nella denuncia di episodi di land grabbing.

Il centro studi giustifica la definizione nel rapporto Green Colonialism 2.0: tree plantations and carbon offsets in Africa (Colonialismo verde 2.0: piantagioni di alberi e compensazioni delle emissioni di carbonio in Africa) diffuso alla fine dello scorso agosto, pochi giorni prima dell’inizio del summit africano per il clima.

Il fondo di investimento AFIP

Nel rapporto esamina l’operato della African Forestry Impact Platform (AFIP), un fondo di investimento spesso citato durante i lavori del summit, che ha l’obiettivo di sostenere gli investimenti in risorse forestali in Africa. Tra gli scopi istituzionali, anche quello di alimentare il mercato dei crediti di carbonio.

Tra i maggiori finanziatori del fondo, dice il rapporto, si trovano istituzioni finanziarie europee per lo sviluppo, una compagnia australiana che si occupa di investimenti e una giapponese con interessi nel settore petrolifero.

AFIP assicura di promuovere “soluzioni basate sulla natura” ma i suoi investimenti, i suoi stakeholder e i suoi finanziatori hanno storie di sfruttamento e di ambientalismo d’accatto.

Tra i primi aderenti al fondo si trova Green Resources, una compagnia norvegese che si occupa dello sfruttamento delle risorse forestali e di crediti di carbonio, tristemente nota per storie di land grabbing, violazione dei diritti umani e di distruzione dell’ambiente in Uganda, Tanzania e Mozambico.

Sui casi citati la documentazione è abbondante e pubblica.

Lo stesso Oakland Institute ha approfondito in particolare il caso dell’Uganda. Nell’ottobre del 2016 aveva pubblicato The darker side of green: plantation forestry and carbon violence in Uganda (Il lato più oscuro del verde: piantagione di foreste e violenza per il carbonio in Uganda).

Poi, nel dicembre del 2017, aveva proseguito con un rapporto specifico sul modo di operare di Green Resources: Carbon colonialism: failure of green resources carbon offset project in Uganda (Colonialismo del carbonio: fallimento del progetto di Green Resources per la compensazione del carbonio in Uganda).

E nel 2019 Evicted for carbon credits: Norway, Sweden, and Finland displace ugandan farmers for carbon trading (Sfrattati per i crediti di carbonio: Norvegia, Svezia e Finlandia sloggiano contadini ugandesi per commercio di carbonio) che tratta specificamente di episodi di land grabbing dovuto a progetti finalizzati a produrre crediti di carbonio.

Survival International, che difende in specifico i diritti dei popoli nativi, ha approfondito invece un progetto in Kenya: This people have sold our air (Questa gente ha venduto la nostra aria).

Il sottotitolo è particolarmente esplicito Blood carbon: how a carbon offset scheme makes millions from indigenous land in northern Kenya (Carbonio insanguinato: come uno schema per crediti di carbonio produce milioni (di dollari, nrd) dalla terra delle popolazioni indigene nel Kenya settentrionale) presentato da Nigrizia tempo fa.

Insomma, non si può dire che le relazioni tra la produzione di crediti di carbonio, il land grabbing, le violazioni dei diritti di gruppi sociali fragili e la corruzione in Africa non siano stati studiati e resi pubblici estesamente.

Per far fronte alla crisi climatica che devasta il continente la soluzione, dicono esperti e attivisti del settore, è chiara: ridurre le emissioni di gas serra fino a fermarle totalmente, mettendo un forte freno alla produzione e al mercato dei crediti di carbonio.

Ma il summit sul clima conclusosi nei giorni scorsi a Nairobi sembra aver imboccato una direzione ben diversa.

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