Il 6 novembre 2023 Giorgia Meloni ed Edi Rama firmavano il Protocollo Italia-Albania. A un anno di distanza, una rete nata dall’alleanza di associazioni italiane e albanesi è determinata a far sì che questo anniversario sia il primo, ma anche l’ultimo.
È stato annunciato ieri, a ridosso del parlamento di Tirana, dove una piccola delegazione di realtà antirazziste italiane ha raggiunto gli attivisti e le attiviste albanesi per prendere parte a una prima conferenza stampa, dove sono state annunciate le prossime tappe del nuovo movimento transnazionale contro la detenzione amministrativa e la deportazione delle persone migranti, che prende il nome di Network Against Migrant Detention.
La mobilitazione di dicembre: in Albania contro la repressione della libertà di movimento
All’inizio del mese prossimo, 1° e 2 dicembre, è prevista infatti in Albania una mobilitazione molto più estesa per chiedere la chiusura di tutti i centri di detenzione assimilabili a quelli aperti in suolo albanese. A cominciare da Tirana e passando poi per Shengjin e Gjader, la due giorni attraverserà i luoghi ‘simbolo della repressione della libertà di movimento’.
‘La lotta contro la realizzazione di qualsiasi altro CPR sul territorio italiano e per la chiusura di quelli che sono già operativi’, si legge nel comunicato, ‘non può essere disgiunta dall’opposizione al processo di esternalizzazione dei dispositivi di controllo, repressione e criminalizzazione delle persone in movimento’.
Il Protocollo Italia-Albania è davvero solo l’inizio? Il braccio di ferro con la magistratura
L’azione di protesta in Albania è ritenuta centrale dal mondo dell’attivismo antirazzista e non solo perché l’eventuale successo o fallimento del modello albanese potrebbe avere ripercussioni importanti sulle future politiche europee. La strada dell’esternalizzazione delle frontiere, infatti, pare essere sempre più allettante agli occhi dell’Unione. La stessa presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha dato la sua benedizione all’accordo firmato tra Rama e Meloni, definendolo un ‘percorso innovativo’. Il fallimento dell’accordo tra Regno Unito e Rwanda, definito ‘morto e sepolto’ da Starmer nel luglio scorso, non è servito da monito. Al punto che il governo Meloni è determinato a tirare dritto tanto da iniziare un vero e proprio braccio di ferro con il mondo della magistratura. Una battaglia combattuta a suon di sentenze, ricorsi, decreti legge al cui centro sta la nozione giuridica dei cosiddetti ‘paesi sicuri’. Dopo che la sezione immigrazione del tribunale di Roma lo scorso 18 ottobre non ha convalidato il fermo delle 16 persone deportate in Albania, la Libra, nave della Guardia costiera italiana, ora ci riprova con otto persone a bordo. L’arrivo al porto di Shengjin è previsto per oggi 7 novembre. Ma potrebbe essere solo la prima tappa di un nuovo andirivieni come la prima volta, considerato che dai tribunali di tutta Italia continuano ad arrivare chiari segnali che quanto sta accadendo sul piano politico non trova riscontro nelle maglie del diritto.
Il tribunale di Palermo proprio ieri ha sospeso il giudizio di convalida del trattenimento di due uomini richiedenti asilo, un guineano e un senegalese. Solo l’ultimo tassello di un ampio puzzle che sta andando a formarsi: negli ultimi giorni, i giudici di Catania hanno annullato il trattenimento di cinque persone provenienti da Egitto e Bangladesh, scegliendo quindi di non applicare il nuovo decreto-legge sui paesi sicuri.
Non solo l’Albania: no ai Cpr anche in Italia
La mobilitazione della società civile italiana e albanese si inserisce in questo contesto. Con la ferrea volontà di opporsi non solo all’esternalizzazione delle frontiere e alle deportazioni, ma a tutto il sistema Cpr, che fa acqua da tutte le parti anche sul suolo italiano, senza contare le continue violazioni dei diritti umani che vengono denunciate al loro interno. Da ultimo, il rapporto presentato da Cild sul ‘viaggio nell’inferno’ delle condizioni aberranti che vivono le persone all’interno del Centro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria, a Roma. Ma si potrebbero citare molti altri esempi, tra cui le polemiche che hanno travolto il Cpr di Palazzo San Gervasio in Basilicata, dove lo scorso 4 agosto è morto un ragazzo di 19 anni, Belmaan Oussama, a seguito del quale è scoppiata una rivolta all’interno del Centro, definito dal dottor Nicola Cocco, parte della rete Mai più lager – No ai Cpr, ‘il fulcro di una grave crisi sanitaria e umanitaria’.
Attraverso un’alleanza tra i due paesi, di natura ben diversa da quella siglata da Meloni e Rama, il Network Against Migrant Detention pone l’accento su una società civile che non rinuncia a essere parte attiva di un percorso di giustizia e di rivendicazione. E la mobilitazione di dicembre è soltanto l’inizio.