Cop 27, appuntamento mondiale sui temi legati al cambiamento climatico, si tiene tra il 6 e il 18 novembre a Sharm el-Sheikh, in Egitto. Si parte con il vertice dei capi di stato e di governo e le risoluzioni finali saranno diffuse il 17.
Durante i lavori saranno discussi temi fondamentali nel dibattito sul futuro del pianeta e dell’umanità. La decarbonizzazione, cioè la conversione a un sistema economico in cui le emissioni di anidride carbonica siano progressivamente ridotte a zero; i modelli di agricoltura per la sostenibilità della produzione di cibo, la sovranità e la sicurezza alimentare; la protezione della biodiversità terrestre e marina; la conservazione, l’uso e la distribuzione delle risorse idriche; il problema energetico e quello dell’adattamento al cambiamento del clima.
È la ventisettesima conferenza dei partner – Cop 27 appunto – della Convenzione quadro sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (United Nations Framework Convention on Climate Change) firmata da 154 paesi (oggi 165) al Summit della Terra, tenutosi nel 1992 a Rio de Janeiro, esattamente trent’anni fa.
L’Africa si presenta all’appuntamento in piena crisi su tutti o quasi i temi che vi saranno discussi. La sua situazione può essere considerata emblematica dell’impatto del cambiamento climatico sulla qualità della vita, se non addirittura sulle possibilità di sopravvivenza, della popolazione in un ambiente che diventa ogni anno più ostile.
Siccità e alluvioni
Nell’Africa orientale, ad esempio, in questo periodo sono stati lanciati due diversi allarmi: la siccità e le alluvioni. L’attuale siccità, iniziata nel 2020, è peggiore per durata e gravità di quelle che l’hanno preceduta nel 2010-2011 e nel 2016-2017, mentre si è accorciato l’intervallo tra i periodi critici. I climatologi prevedono che anche la stagione delle piogge appena iniziata sarà fallimentare. La previsione sembra purtroppo confermata da un mese di ottobre quasi completamente secco.
Secondo calcoli delle agenzie Onu e delle organizzazioni umanitarie competenti, alla metà di settembre erano più di 36 milioni le persone in sofferenza per la siccità nella regione: 24,1 in Etiopia; 7,8 in Somalia dove non piove quasi ininterrottamente dal 2015; 4,2 nel nord e sulla costa del Kenya.
In queste aree il bestiame e la fauna selvatica sono già stati decimati mentre si contano ormai numerosi anche i morti per fame, soprattutto tra gli anziani, i bambini, le donne in gravidanze e in allattamento. Gravi problemi si registrano anche in Uganda, a Gibuti e sulla costa della Tanzania.
In Sud Sudan, invece, il problema sono le alluvioni. In questi giorni due terzi del paese sono sommersi dall’acqua che ha distrutto villaggi, pozzi, latrine e ha annegato il bestiame lasciando almeno 900mila persone senza casa e mezzi di sostentamento e a rischio di epidemie trasmesse dall’acqua, quali il tifo e il colera.
In alcune zone del nord il territorio è allagato quasi ininterrottamente da circa quattro anni. Bentiu, la capitale dello stato di Unity, è diventata praticamente un’isola raggiungibile solo con barche e aerei, che garantiscono con grande fatica i rifornimenti alla popolazione residente, cui si aggiungono 460mila sfollati, parte a causa della guerra civile, scoppiata nel dicembre del 2013 e mai del tutto finita, parte a causa delle alluvioni stesse.
Situazione di emergenza anche in Sudan, dove, secondo gli esperti locali, le alluvioni sono diventate più gravi, estese e durature dalla fine degli anni Ottanta, indicandone le cause nel cambiamento del clima.
I sempre più frequenti cicli di siccità e alluvioni hanno determinato migrazioni dalle aree rurali a quelle urbane creando insediamenti informali con carenza di infrastrutture e in aree sotto gli argini dei corsi d’acqua, rendendo gli esondamenti devastanti in termini di perdita di vite umane e di abitazioni – circa 200 e 5mila rispettivamente nella scorsa stagione delle piogge -, e di altri servizi di base.
In Africa, a rischio 750 milioni di persone
In tutti questi casi, i climatologi sottolineano l’eccezionalità e l’accelerazione dei fenomeni mentre i governi fanno i conti con l’impossibilità di far fronte a una situazione in costante peggioramento. E non solo per incapacità politica o per mancanza di mezzi tecnici ed economici, che sono tuttavia un problema reale. Ma soprattutto perché il bandolo dell’intricata matassa sta per la gran parte nelle mani di altri.
Gli esperti calcolano, infatti, che l’Africa contribuisce solo con il 3,8% all’emissione complessiva di anidride carbonica, che è ormai riconosciuta come il fattore scatenante dei cambiamenti climatici, ma ne soffre il maggior impatto, che si evidenzia in problemi sociali ed economici sempre più gravi e diffusi che finiranno per aumentare anche l’instabilità nel continente e nel pianeta intero.
Secondo una ricerca condotta dal think thank australiano Institute for Economics & Peace (Iep), «senza azioni coordinate, l’attuale livello di degrado ecologico peggiorerà, intensificando l’instabilità già esistente, diventando un catalizzatore di nuovi conflitti e aumentando i flussi migratori forzati».
Oltre alle migrazioni, ormai evidenti in molte parti del continente, il più drammatico impatto del cambiamento del clima è l’insicurezza alimentare. Secondo la ricerca dell’Iep, sono 750 milioni le persone che non hanno cibo a sufficienza a causa delle crisi climatiche, il 35% in piú rispetto al 2017. Il problema si concentra soprattutto in 41 paesi, 37 dei quali nell’Africa subsahariana.
Modelli di agricoltura a confronto
Non sorprende dunque che nel continente sia molto acceso il dibattito sui modelli di produzione agricola per far fronte alla crisi alimentare perdurante e crescente. Si confrontano sostanzialmente due posizioni. La prima è quella di uno sviluppo agricolo trainato da sementi certificate, anche Ogm, pesticidi chimici, metodi di produzione industrializzata, promossi nel contenente in particolare dal programma Agra (Alliance for a Green Revolution in Africa), iniziato nel 2006 e finanziato dalle Fondazioni Bill e Melinda Gates e Rockfeller.
Il programma offre periodicamente anche occasioni di dibattito. Quest’anno il Summit Africa Green Revolution Forum 2022 si è svolto lo scorso settembre a Kigali in Rwanda, tra crescenti perplessità e contestazioni di chi valorizza invece i saperi locali, protegge la biodiversità delle sementi e sostiene che la produzione agricola spinta da Agra ha già dimostrato limiti e pericoli in altri continenti.
Compensazioni
Si contestano in particolare i risultati del programma, che ha provocato sfruttamento e contaminazione chimica delle risorse idriche e conseguente degrado del suolo, contribuendo dunque ad aggravare una crisi ambientale già grave. Si osservano inoltre gravi impatti sociali, quali l’indebitamento dei piccoli produttori a causa del costo insostenibile di semi e fertilizzanti prodotti e commercializzati dalle multinazionali, la produzione in diminuzione dopo un iniziale aumento, la perdita nella diversificazione dei prodotti agricoli e della dieta.
In definitiva, dicono i suoi detrattori, Agra ha aggravato la povertà dei piccoli produttori e della popolazione rurale in genere. Certo non ha risolto il problema della sicurezza alimentare nel continente.
Due cose, però, sono già chiare nel dibattito che ferve nel continente sui modelli di produzione alimentare e su altri aspetti della crisi climatica e ambientale attuale. Tutti, o quasi, concordano nel riconoscere che il problema è sistemico e va affrontato in modo globale, e che l’Africa è vittima di politiche di altri e non può, anche volendo, mitigarlo con i suoi soli mezzi.
Si presenterà dunque compatto all’appuntamento di Cop 27 con la richiesta di compensazioni. Una richiesta legittima, ma non sufficiente se la leadership continentale non riuscirà a imporre anche un cambio di rotta nelle politiche globali. Ed è improbabile che abbia la forza, e anche la volontà, di farlo.