Sono ormai quattro mesi che Pulchérie Gbalet, attivista ivoriana, è in detenzione preventiva ad Abidjan.
Sul suo capo pendono accuse pesanti: intesa con gli agenti di una potenza straniera di natura lesiva della situazione militare e diplomatica della Costa d’Avorio; manovre volte a screditare le istituzioni e a generare gravi disordini nell’opinione pubblica”.
Roba da spia internazionale. Da consumata insurrezionalista.
Il viaggio della discordia
Cosa avrà fatto mai la Gbalet per meritarsi tali capi d’accusa?
È andata in Mali per una settimana. A fine luglio 2022. Ma non in vacanza e non in un periodo qualsiasi. Vi si è recata quando da qualche settimana, imperversava il caso dei soldati ivoriani arrestati a Bamako.
Per la cronaca: la Costa d’Avorio aveva inviato un contingente di 49 militari ed armi a Bamako, nel quadro – a suo dire – di un routinario ricambio di soldati per la missione Onu in Mali, la Minusma.
Ben diversa l’interpretazione di Bamako: quegli uomini erano stati spediti per partecipare ad un colpo di stato e rimuovere la giunta golpista di Assimi Goita.
Spoiler sull’affaire: dopo mesi di mediazioni internazionali, i due Paesi rimangono più o meno sulle stesse posizioni. Solo 3 soldati su 49 sono stati liberati. Anche se da molto tempo, la comunità internazionale dà, di fatto, ragione ad Abidjan e richiede il rilascio immediato dei militari.
Torniamo alla Gbalet ed a quel fine luglio.
Lei, come molti in quel momento, non sa a quale versione credere. Quindi decide di andare a Bamako per indagare un po’. A suo dire, passerà i suoi giorni nella capitale maliana semplicemente parlando con membri di Ong locali e personalità vicina alla giunta al potere.
La sua iniziativa non piace alle forze dell’ordine ivoriane, che – appena tornata in patria – la portano dall’aeroporto in questura per accertamenti. La mandano via dopo qualche ora. Si tengono il suo cellulare e il passaporto.
L’abitudine al controllo
Per lei niente di nuovo. Da un paio d’anni è l’attivista più nota del paese. Come Presidentessa della Ong Alternative Citoyenne Ivoirienne (Alternativa cittadina ivoriana, ACI), ha già avuto varie grane con la polizia. E soprattutto, si è fatta 8 mesi di carcere, dall’agosto 2020 all’aprile 2021, rea di aver manifestato e invitato a manifestare contro il terzo mandato da Presidente della repubblica di Alassane Ouattara.
All’epoca, c’era stata una forte mobilitazione per il suo scarceramento, a cui avevano partecipato anche Amnesty International e vari politici internazionali.
Altro spoiler: Ouattara ha poi vinto le elezioni con il 94%, anche perché quasi tutta l’opposizione le ha boicottate.
Ritorniamo a lei. Giorno: 22 agosto.
È ora di recuperare telefonino e passaporto. Così le comunica la polizia, che la invita a tornare in Questura. Una volta lì, le elencano le accuse di cui sopra e la portano in prigione.
Da quel momento è in detenzione preventiva nel principale carcere del paese, la famigerata MACA. Un luogo pensato per 8,000 detenuti, ma che ne ospita 22,000.
Il decorso giudiziario procede a rilento. Non si vede l’inizio di un processo all’orizzonte e non si intuiscono segni di caduta delle accuse.
L’attenzione mediatica ha avuto un picco nella manciata di giorni successivi all’arresto. Si è espresso a favore della sua liberazione, lo stesso Laurent Gbagbo, l’ex Presidente ivoriano tornato in patria nel 2021, dopo 10 anni di processo (vissuti, di fatto, in custodia cautelare) all’Aia per crimini di guerra, da cui è uscito assolto.
Ma da inizio settembre, la questione è uscita fuori dal radar dei media. Non si assiste lontanamente all’ondata di supporto vista nel 2020, durante la passata incarcerazione.
Il che aumenta il rischio di estensione della detenzione preventiva. Nel suo caso, è previsto che duri 6 mesi, rinnovabile una sola volta per lo stesso periodo. Ma la MACA è piena di detenuti in detenzione preventiva da più di 2 anni, come denunciano da anni varie Ong ivoriane. E non sono rari i casi in cui si superano persino i 10 anni.
Il costo del dissenso in Costa d’Avorio
Per Donald Gahié, Direttore esecutivo di ACI e portavoce di Gbalet, ci sono pochi dubbi sul come leggere la reazione. Dichiara a Nigrizia che «i cittadini ivoriani sanno che, da quando si è installato questo regime, non siamo più in uno stato di diritto. In Costa d’Avorio, anche un bambino di 5 anni sa che bisogna tapparsi la bocca sulle questioni gravi, per sperare di vivere. Altrimenti ti aspettano prigione, rapimento, minacce di morte e persino la morte».
Gahié non ha tutti i torti.
Il partito al potere, il RDHP di Alassane Ouattara ha dato varie prove di repressione di dissenso e opposizione. A livello politico, basti pensare a come sono stati azzoppati i suoi potenziali rivali politici alle elezioni presidenziali del 2020: inchieste giudiziarie ad personam (vedi il caso Guillaume Soro, Jacques Mangoua o Noël Akossi Bendjo) e pressioni fiscali (è il caso di Jean-Louis Billon).
In campo di società civile, le manifestazioni dell’opposizione e della società civile sono raramente concesse. Una sorte simile e peggiore a quella della Gbalet è già toccata all’attivista Samba David, oggi presidente dell’Ong Coalitions nationale des indignés (la Coalizione nazionale degli indignati).
David è stato condannato nel 2015 per aver promosso delle manifestazioni contro la candidatura di Ouattara alle elezioni presidenziali dello stesso anno. La pena prevedeva 6 mesi di prigione. Che sono diventati tre anni. Colpa di una sopraggiunta accusa di coinvolgimento in un omicidio e di un giudice istruttorio che ha impiegato anni per far avanzare il dossier. Senza peraltro mai riuscirci. Alla fine, David è uscito per ragioni medicali, dovute al deterioramento della sua salute in carcere.
Forse ancora più emblematico e rivelatore della capillarità del controllo statale è quanto accaduto al duo musicale Yode e Siro. Quest’ultimi formano il più noto gruppo di zouglou, un genere nato in Costa d’Avorio negli anni ‘90, che soprattutto agli inizi, offriva canzoni con testi di contestazione e critica sociale.
Durante un loro concerto, il 29 novembre 2020 Yode e Siro avevano criticato l’operato del Procuratore della repubblica Richard Adou, a riguardo degli scontri scoppiati nei giorni delle elezioni presidenziali del mese prima. Scontri in cui erano morte almeno 51 persone.
A loro avviso, Adou stava perseguendo solo chi aveva commesso reati tra le file dell’opposizione, ignorando quelli del campo al potere.
Tempo 4 (quattro) giorni, si sono ritrovati condannati ad un anno di prigione con pena sospesa (vale a dire che se avessero commesso lo stesso reato durante quell’anno, sarebbero finiti in carcere) per ‘’oltraggio al magistrato, e discredito dell’istituzione giudiziaria”.
La strategia della riconciliazione
Eppure la parola d’ordine del momento è riconciliazione nazionale. Da quando sono tornati Gbagbo (nel giugno 2021) e il suo compagno di prigione all’Aia, Charles Blé Goudé (nel novembre 2022), sia maggioranza che opposizione giocano la partita della coesione sociale. Entrambi non hanno molta scelta. L’RDHP non può permettersi di escluderli platealmente dall’arena politica, forti come sono di un’assoluzione piena da parte del Tribunale internazionale per i crimini contro la guerra.
A loro volta, Gbagbo e Blé Goudé non hanno le risorse di uomini e mezzi per fare i ‘’rivoluzionari’’. Per cui presentarsi con un profilo istituzionale è un buon modo, forse l’unico, per contare nell’arena politica.
Nonostante l’attenzione sulla riconciliazione, fare opposizione ed esprimere dissenso rimangono attività pericolose per chi agisce al di fuori del perimetro dei principali partiti e attori politici.
La società civile in Costa d’Avorio c’è e batte colpi. Ma da anni, viene sistematicamente rimessa in riga alla prima occasione.