Sfiducia nei vaccini, uso politico della pandemia. Nel continente africano questi due elementi – apparentemente scollegati – sono al centro di studi e dibattiti che da un lato manifestano il punto di vista dei cittadini (attraverso i social) dall’altro mettono in luce i giochi di potere che ormai da un paio d’anni a questa parte, stanno tenendo sotto scacco gli africani.
Intanto parliamo della sfiducia nei vaccini, che non sembra essere cosa di poco conto. Lo rivela un’indagine del Centro per l’analisi e il cambiamento comportamentale (Center for Analytics and Behavioral Change – Cabc) presso l’Università di Cape Town (Uct), che ha preso in considerazione la produzione sui social media in un certo lasso di tempo, in sei paesi: Sudafrica, Ghana, Kenya, Senegal, Nigeria e Tanzania. Dall’analisi di circa 5mila hashtag è emerso che solo il 4,8% sarebbe entusiasta dei vaccini, mentre il 35,3% riflette una forte esitazione.
Tra i due estremi c’è il 21,4% che attraverso i social ha promosso teorie cospirative e un 20,2% che manifesta, per così dire, considerazioni scettiche. E mentre il 10,3% appare neutrale sulla questione, solo l’8% sostiene i vaccini. Insomma, tre quarti delle opinioni rivelano sfiducia nei confronti dei vaccini anti-Covid.
“La conversazione sui vaccini – commentano i ricercatori della Uct – è uno spazio polarizzato e combattivo. La disinformazione e notizie inesatte sono all’ordine del giorno, guidate principalmente da gruppi di minoranza che hanno un’aperta sfiducia nei confronti delle istituzioni, del governo, delle élite e degli esperti”.
La cosa stravagante è che sarebbero gli account con meno followers, e quindi anche meno controllati, ad essere capaci – secondo i dati raccolti e analizzati da questo studio – di creare il maggior volume di conversazione anti-vaccino, mentre – come è ovvio – la narrativa pro-vaccino è ancora guidata principalmente da scienziati, influencer, giornalisti, governo e istituzioni.
Il fatto è: come questo genere di analisi possono aiutare a individuare modi per respingere messaggi fuorvianti e teorie cospirative e incoraggiare più persone a farsi vaccinare quando è proprio nelle istituzioni che i cittadini non credono? Istituzioni che in molti casi hanno usato il Covid-19 come pretesto per limitare i diritti alla libertà di espressione e di riunione pacifica o per prendere di mira politici avversari durante, per esempio, le campagne elettorali.
Un approfondimento di questo aspetto viene dall’ultimo lavoro di Amnesty International, Silenced and disinformed – Freedom of expression in danger during Covid-19. (Messi a tacere e disinformati – La libertà di espressione in pericolo durante il Covid-19). Vediamo cosa è emerso. In diversi paesi africani nell’ultimo anno ci sono state elezioni nazionali. E secondo le analisi degli esperti, la pandemia ha “aiutato” maggioranze politiche e leader di governo a tenere a bada il dissenso.
Censure e intimidazioni in vista del voto
È stato il caso della Tanzania, ad esempio, dove il governo ha introdotto una serie di leggi per mettere a tacere giornalisti, organizzazioni della società civile, difensori dei diritti umani e membri dell’opposizione politica, in particolare nel periodo precedente l’ottobre 2020, quando ci sono state le elezioni. Tra marzo e maggio 2020 le autorità avevano già messo in campo o usato leggi che vietavano e criminalizzavano le “notizie false” e altre misure per limitare la copertura mediatica della gestione da parte del governo della pandemia.
Nell’ambito della repressione dei media, Star Media Tanzania, Multichoice Tanzania e Azam Digital Broadcast sono state multate di 5 milioni di scellini tanzaniani ciascuno (circa 2.150 di dollari statunitensi). Inoltre, il giudice ha ordinato di scusarsi per la “trasmissione di informazioni false e fuorvianti” riguardo alla gestione del Covid-19.
Con lo stesso sistema “intimidatorio” le autorità hanno anche sospeso per sei mesi – ad aprile 2020 – il quotidiano online Mwananchi e imposto la stessa multa di 5 milioni di scellini tanzaniani per aver pubblicato una foto del defunto presidente John Pombe Magufuli mentre acquista pesce nel suo villaggio natale, apparentemente in violazione delle linee guida sul distanziamento fisico. Secondo le autorità non si trattava di una foto recente.
Per non parlare dell’arresto (e poi licenziamento) del giornalista Khalifa Said che denunciava la pericolosità della politica di Magufuli, il presidente negazionista morto quest’anno pare proprio per complicanze dovute al Covid. Il presidente invitava i suoi cittadini a continuare a frequentare i luoghi di culto durante la pandemia e a usare “metodi casalinghi” per tenere lontano il virus.
Il 2020 è stato un brutto anno sia per la stampa mainstream africana che ha cercato di lavorare sui fatti, sia per la società civile, così come ricostruisce l’analisi di Amnesty. Ma anche quest’anno non è cominciato bene. L’Uganda ha tenuto le elezioni presidenziali nel gennaio 2021 e le organizzazioni della società civile hanno subìto una rinnovata repressione della libertà di espressione e dell’accesso ai social media in vista del voto.
Già nel marzo 2020, appena il Covid-19 aveva iniziato a diffondersi in tutto il paese, la Commissione per le comunicazioni aveva emesso una dichiarazione in cui si affermava che chiunque avesse diffuso informazioni false sarebbe stato arrestato e perseguito in base a leggi specifiche sulla privacy, la protezione di atti pubblici, il cattivo uso della rete.
Un quadro legislativo utilizzato durante la pandemia – dicono i difensori dei diritti umani – per criminalizzare la libertà di espressione e per penalizzare giornalisti e scrittori, come Kakwenza Rukirabashaija, autore noto per un libro che critica il presidente Museveni e la sua famiglia. Emblematico il titolo, The Greedy Barbarian (Il barbaro avido). L’uomo, che ha raccontato di essere stato torturato in prigione, è stato nominato recentemente International Writer of Courage nell’ambito del celebre Pen Pinter Prize. Ma il governo ugandese non si è lasciato intimidire dal suo coraggio.
Da settembre dello scorso anno è in vigore un’ulteriore stretta da parte delle autorità di comunicazione che hanno stabilito che siti che vogliano pubblicare informazioni devono ottenere una licenza. Va anche ricordato che l’Uganda ha sempre reso difficile per i suoi cittadini navigare in Internet e soprattutto usare i social.
Il governo ha introdotto una nuova tassa, un’accisa del 12% sui dati mobili, aumentando i costi in una nazione già impantanata da tariffe dati alle stelle. La nuova tassa sostituirà quella sui social media fortemente contestata e imposta nel 2018. Secondo il vecchio sistema, gli utenti di WhatsApp, Facebook, Skype e altri social media erano tenuti a pagare una tariffa giornaliera obbligatoria di 200 scellini per accedere ai social.
Misure restrittive anche in Niger, dove la legge sulla criminalità informatica del 2019 è stata utilizzata per effettuare una decina di arresti tra marzo e aprile 2020 ai sensi dell’articolo 31 che penalizza “la diffusione, produzione e messa a disposizione di altri dati che possano turbare l’ordine pubblico o violare la dignità umana attraverso il sistema informatico”.
Legge usata, in sostanza, per mettere a tacere le voci del dissenso come quella del difensore dei diritti umani Mahaman Lawali Mahaman Nassourou, vicepresidente del Comité de réflexion et d’orientation indépendante pour la sauvegarde des acquis démocratiques, arrestato e incarcerato per aver condiviso tramite WhatsApp un documento critico nei confronti delle misure attuate dal governo per contenere la diffusione del virus.
Anche il governo sudafricano – si legge nel documento – ha messo in atto una serie di restrizioni e regolamenti che tendono a criminalizzare la disinformazione ma anche qualunque informazione relativa al Covid-19 che non sia in linea con la versione ufficiale del governo. E anche se quest’anno alcune restrizioni sono state allentate gli stessi regolamenti sono stati aggravati da direttive ministeriali che impongono ai fornitori di servizi di comunicazione, ai media e alle società di social media di rimuovere le “notizie false” dalle loro piattaforme.
Direttive che prevedono anche multe e arresti, e ce ne sono stati, nei confronti di emittenti e giornalisti. Sanzioni molto simili sono quelli previsti nell’Emergency Powers Act del Botswana, adottato nell’aprile 2020 per criminalizzare la disinformazione ma anche chiunque “trasmetta al pubblico qualsiasi informazione sul Covid-19 da fonte diversa da quelle rilasciate dal direttore dei servizi sanitari e dall’Oms”.
Anche in questo paese numerosi – soprattutto lo scorso anno – sono stati gli arresti di chi osava criticare le misure del governo, compresi quelli di politici dell’opposizione che hanno pubblicato informazioni sul Covid su Facebook. Quelli citati nel report/sintesi di Amnesty International sono alcuni dei casi più eclatanti.
La questione rimane l’abuso delle autorità, abusi che nelle intenzioni dei governi non sono viste, evidentemente, come tali, e che avrebbero lo scopo di prevenire la diffusione di notizie non accertate. Il risultato è forse l’opposto, con operatori dell’informazione e semplici cittadini che si sentono accerchiati e vedono limitato il proprio diritto di espressione. Forse – ci si potrebbe riflettere – un po’ di sfiducia nei vaccini proviene anche da questo atteggiamento censorio dei governi.