Il dibattito sul mercato dei crediti di carbonio è vivissimo fin dal momento della sua istituzione. L’idea che si potessero pagare pratiche inquinanti comprando quote da chi si impegna a ridurre l’anidride carbonica nell’atmosfera è sempre sembrata a dir poco farisaica a una gran parte del mondo ambientalista.
Un articolo del Guardian, autorevole giornale britannico, pubblica uno schemino chiarissimo per descrivere l’uso che gli inquinatori fanno dei crediti di carbonio. Dal momento che pagano, possono vantare sensibilità ambientale, e farne un fiore all’occhiello del loro marketing.
Con l’andare degli anni, si è anche visto che i progetti studiati per incassare i crediti sono di difficile valutazione e monitoraggio. Per di più possono incidere negativamente su altri aspetti importanti per il futuro del pianeta e dell’umanità, quali la protezione della biodiversità e i diritti umani.
«Il mercato volontario del carbonio è pieno di progetti di bassa qualità che non mantengono le promesse riguardo ai benefici per il clima, o che hanno serie conseguenze negative per la biodiversità e i diritti umani». Lo afferma Elina Kajosaari, amministratrice delegata di Compensate, un’organizzazione che combatte i cambiamenti climatici offrendo accesso a progetti sul carbonio di alta qualità.
Un libro bianco dell’organizzazione recentemente pubblicato afferma che il 90% dei progetti sui crediti di carbonio basati su soluzioni ambientali non è efficace.
Non fa testo neppure la certificazione in base a standard internazionali riconosciuti. E dunque si rischia che siano controproducenti. «Individui e aziende, tra cui molte multinazionali, stanno usando i crediti di carbonio emessi da questi progetti per compensare le proprie emissioni. Ma compensando per mezzo di questo genere di crediti, che inondano il mercato attuale, si possono avere risultati per il clima minimo o addirittura controproducenti», afferma ancora Kajosaari.
Le ragioni principali, dice il libro bianco sopra citato, riguardano valutazioni non realistiche delle emissioni di anidride carbonica e dunque previsioni del tutto vaghe e non credibili sulla loro riduzione come conseguenza della realizzazione del progetto.
Ma soprattutto molti interventi non contribuiscono a raggiungere benefici climatici aggiuntivi rispetto a quelli che si avrebbero anche in loro mancanza.
Il libro bianco li definisce progetti falliti in partenza, ma spesso non senza conseguenze. Molti infatti contribuiscono a creare conflitti nelle comunità. Si sono avuti casi di sfratto di centinaia di migliaia di persone per dedicare i terreni sui quali vivevano a progetti per incassare crediti di carbonio.
Inoltre, in molti casi i benefici originati dalla vendita dei crediti di carbonio non vengono distribuiti in modo equo. Molto spesso vengono dati solo a chi può dimostrare di avere titoli di proprietà del terreno dedicato al progetto, mentre in molti Paesi in via di sviluppo la maggioranza della popolazione rurale ha solo l’usufrutto delle terra comunitaria.
In particolare, non hanno titoli di proprietà individuali e “legali”, secondo la nostra accezione del termine, le popolazioni native che sono spesso coinvolte a loro insaputa in interventi che ne violano anche i ritmi tradizionali della vita e dell’economia, senza averne benefici tangibili.
Carbon credit e pastori nel nord del Kenya
Survival International ha recentemente pubblicato un rapporto su un progetto per i crediti di carbonio nel nord del Kenya. Il documento descrive un caso che sembra rientrare tra quelli considerati falliti in partenza e dannosi per le comunità coinvolte, se valutato secondo i criteri di Compensate.
Il titolo del rapporto, This people have sold our air (Questa gente ha venduto la nostra aria), è una frase di Emanuel, un giovane rendille, piccolo gruppo etnico di pastori (meno di 100mila persone) che vive tra Marsabit e il lago Turkana.
Ѐ sicuramente una frase illuminante della percezione di espropriazione dei beni più vitali vissuto dalle comunità coinvolte. Il sottotitolo Blood carbon: how a carbon offset scheme makes millions from indigenous land in northern Kenya (Carbonio insanguinato: come uno schema per crediti di carbonio produce millioni (di dollari, nrd) dalla terra delle popolazioni indigene nel Kenya settentrionale).
Il progetto riguarda il terreno di pascolo: Northern Kenya grassland carbon project (Progetto per il carbonio nelle terre di pascolo del Kenya settentrionale). Ne è titolare la Northern Rangelands Trust (Nrt), una organizzazione che rappresenta 43 riserve private (definite un po’ spicciativamente comunitarie) nel paese.
La Nrt è già stata oggetto di una ricerca dell’Oakland Institute. I suoi risultati sono riassunti in modo preciso nel titolo: Stealth Game. “Community” conservancies devastate land & lives in northern Kenya (Partita segreta. Le riserve “comunitarie” devastano terra e vite nel Kenya settentrionale).
Il Northern Kenya grassland carbon project (Nkcp) si estende su 2 milioni di ettari di terreno di pascolo, incluso in una quindicina di riserve limitrofe, in modo da essere il più possibile continuo. Ѐ descritto sul sito web come il più grande progetto al mondo che emette crediti di carbonio prodotti su vastissime estensioni di terreno di pascolo.
Si propone di bloccare nel suolo 50 milioni di tonnellate di anidride carbonica nell’arco di 30 anni, pari alle emissioni di 10 milioni di auto in un anno. Il progetto vanta inoltre di essere il primo basato sul cambiamento delle abitudini di pascolo delle comunità che risiedono nelle riserve. Si tratta di circa 100mila persone, tutte di abitudini pastorali, appartenenti in maggioranza ai gruppi etnici dei maasai, samburu, borana e rendille.
Presso queste comunità, che vivono in un ambiente semidesertico estremamente fragile, le modalità di pascolo seguono gli andamenti stagionali, legati al ciclo della pioggia, e regole precise dettate dagli anziani, corredate da costi e sanzioni.
Il progetto si basa sul presupposto che vada eliminata l’abitudine di far pascolare le mandrie in modo incontrollato e vada creata una rotazione delle zone in cui è possibile pascolare, in modo da far crescere il foraggio nelle altre. Ѐ in queste zone che, a rotazione, il carbonio sarà intrappolato. Questa modalità permetterà lo stoccaggio di ¾ di tonnellata per ettaro all’anno in piu di quanto immagazzinato normalmente.
Secondo i calcoli di chi ha scritto il rapporto, questo permetterebbe di stoccare 1,5 milioni di tonnellate di carbonio all’anno in più di quanto sarebbe possibile senza la rotazione dei pascoli.
Sarebbero perciò circa 41 milioni di tonnellate nell’arco di 30 anni, per un valore stimato tra i 300 e i 500 milioni di dollari, e forse più.
Il progetto è considerato un modello, tanto che la Commissione europea ha dichiarato che in futuro baserà su questo genere di interventi i suoi finanziamenti alla conservazione ambientale in Africa, nel quadro di riferimento di un programma chiamato “NaturAfrica”.
Criticità e opacità
La ricerca condotta da un esperto del settore per conto di Survival International solleva invece molti dubbi sull’impostazione stessa del progetto e ne elenca i diversi punti critici. Primo fra tutti l’impatto sulle comunità coinvolte, cui è imposto dall’alto di cambiare il proprio modo di gestire l’attività economica che ne garantisce la sopravvivenza.
Le comunità, inoltre, non sarebbero state adeguatamente informate e coinvolte nel progetto, come sarebbe previsto dai protocolli internazionali in materia. Ma vengono argomentati anche diversi problemi tecnici. Non è scientificamente provato, ad esempio, che la rotazione dei pascoli permetta lo stoccaggio di carbonio aggiuntivo. La base di partenza, infatti, è solo presupposta.
Dunque nessun calcolo credibile su quantità aggiuntive stoccate può essere fatto. Inoltre non c’è modo di controllare con precisione la rotazione delle zone di pascolo in un territorio tanto grande e per un numero di pastori rilevante. Senza contare che altri potrebbero entrare nel territorio considerato.
Ci sarebbero inoltre questioni legali dovute allo status dei terreni su cui il progetto si estende mentre è incerto il diritto della Nrt di gestire i proventi che ne sono già derivati e che ne deriveranno in futuro.
Per quanto riguarda la distribuzione dei proventi, infine, ne andrebbero alle comunità il 30%. Ma il 40% di questa quota dovrebbe essere investita per rinforzare le strutture del progetto e del monitoraggio. Il restante 60% sarebbe distribuito dalla Nrt attraverso un processo ben poco trasparente.
In conclusione, il rapporto di Survival International conferma la debolezza, se non l’opacità, del mercato dei crediti di carbonio basati sulle risorse ambientali.
Ma mette anche in luce molte, troppe criticità di un progetto spacciato come possibile pilota di ingenti finanziamenti europei alla conservazione ambientale in Africa. E non è la prima volta che una ricerca indipendente mette in discussione scelte politiche basate su informazioni non trasparenti o non sufficientemente ponderate.