A partire dall’agosto 2020 quella che era stata fino a quel momento l’area a più forte ed estesa influenza francese in Africa occidentale e nel Sahel ha dato vita a una serie di colpi di stato che di fatto hanno rimodellato il panorama politico di quella regione. Parliamo di Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso, Guinea e Gabon.
Oggi a capo di questi paesi ci sono giunte militari. Come dovrebbero comportarsi i paesi occidentali nei confronti di questi governi? Appoggiarli o allontanarsene? È una domanda che corre tra leader, analisti e consiglieri politici.
Nel primo caso si tratterebbe di abdicare alle regole della democrazia per evitare che l’area rimanga solo sotto il controllo russo e di altri player che piano piano negli ultimi anni si sono sostituiti alla presenza europea, ad esempio Cina e Turchia; nell’altro, dare segnali di compattezza a favore dei diritti umani e dell’impegno al rispetto dei principi democratici.
Intanto, come sappiamo, quello che ha caratterizzato queste giunte e le popolazioni che sembrano sostenerle è il crescente sentimento antioccidentale, evidenziatosi nei fatti con lo sfaldamento della cosiddetta françafrique. In termini pratici allontanamento delle forze francesi, statunitensi e internazionali di mantenimento della pace, censura di media occidentali, espulsione di diplomatici.
Mentre si rimescolano le carte il Sahel è ormai diventata una delle regioni più instabili al mondo, se non la più instabile in assoluto. A dispetto delle truppe impegnate negli anni – non solo dalla Francia evidentemente, ma anche dall’Unione Europea, dall’ONU, dagli Stati Uniti. E a dispetto anche delle promesse delle varie giunte di liberarsi una volta per tutte degli estremisti jihadisti.
Infatti, gli attacchi ai civili e le violenze sono aumentati. Nel 2023 il 50% delle vittime conseguenza di azioni legate all’estremismo islamista sono state registrate nel solo Sahel, contro il 33% in Somalia, il 16% nel Bacino del Lago Ciad e l’1% in Mozambico.
Un dato drammatico che rende evidente lo stato di insicurezza e la condizione dei civili nella regione. Condizione che si riflette ad esempio nell’aumento di sfollati e rifugiati.
Ma veniamo alla domanda iniziale: riconoscere la legittimità delle giunte o no? Il realismo pragmatico, che implica tollerare l’autoritarismo per aprire la porta a una maggiore cooperazione e non lasciare completamente l’influenza politica nella regione agli altri, rimane perlopiù la posizione dell’Unione Europea, preoccupata per il varco apertosi nel blocco delle rotte migratorie verso il Mediterraneo.
E la discussione nel tempo si è aperta su possibili nuove modalità di relazioni tra questa e i governi militari al potere. Tanto da cercare nuove strategie.
Ad esempio, limitare la cooperazione in materia di sicurezza al mantenimento di canali di comunicazione tra militari, esortando al contempo le nuove autorità del Sahel a esplorare soluzioni non militari all’insicurezza, compreso il dialogo con comunità e gruppi emarginati; lavorare di più sulle questioni sociali e sul funzionamento di settori come l’istruzione e la sanità.
Ma anche considerare la possibilità di condizionare gli investimenti a lungo termine all’obbligo dei governi partner di attuare azioni che garantiscano un rispetto minimo dei diritti umani.
In sostanza, lavorare meno alla questione securitaria e alla lotta al terrorismo (dove appunto si registrano una serie di fallimenti) e più alla collaborazione per rimuovere le cause strutturali che alimentano instabilità e insicurezza.
Detto questo, è chiaro che una strategia diversa implica unità e visione comune dell’Europa nei confronti del Sahel, ma anche partecipazione attiva da parte delle differenti giunte africane al momento al potere.
Dall’altro lato, affermano ad esempio Joseph Siegle e Jeffrey Smith, di Africa Center for Strategic Studies, bisogna considerare errata la convinzione che “se l’Occidente riconoscesse le giunte militari come legittime e tollerasse la loro mano pesante, allora ciò potrebbe mantenere la porta aperta a una maggiore cooperazione e forse a una risposta più efficace all’insurrezione estremista”.
Le giunte militari, invece, secondo gli analisti citati non faranno che peggiorare l’instabilità già in atto, l’estremismo e anche i flussi migratori verso l’Europa. La cooperazione dell’Occidente con precedenti governi democraticamente eletti, continuano gli studiosi, aveva portato a miglioramenti dal punto di vista dello sviluppo e degli investimenti. Non andrebbe così con le giunte.
Intanto, non sono in vista né riforme né elezioni. In questo contesto la presenza della Russia che – viene ricordato – ha svolto un ruolo attivo e non così subdolo nei colpi di stato di Niger, Burkina Faso e Mali, si fa sempre più evidente e invadente a livello di paramilitari (ieri Wagner, oggi Africa Corps e altri gruppi) sul campo.
Non assistenza allo sviluppo, dunque, ma appoggi politici armati da parte di Mosca e spesso pagati con l’accesso alle risorse. Cosa che, del resto, accade in tutti gli altri paesi africani dove sono in azione queste truppe. È questo il panorama in cui si trovano a prendere decisioni di diplomazia le forze internazionali.
Lasciare il Sahel al destino che stanno costruendo e costruiranno le giunte al potere con gli appoggi di stampo militare della Russia o tenere le porte aperte a forme di dialogo e collaborazione, nella speranza che tali regimi si convincano a ridare vita a processi democratici.