Il 18 aprile si celebra la Giornata internazionale del patrimonio mondiale, cioè il complesso di siti naturali, opere dell’uomo, aspetti culturali che l’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura) ha individuato e protegge come eredità dell’umanità da trasmettere alle generazioni future.
Nell’occasione, Survival International ha diffuso il rapporto #DecolonizeUNESCO, in cui evidenzia come l’organizzazione sia complice nel violare i diritti alla terra e i diritti umani dei popoli indigeni che risiedono tradizionalmente in numerosi siti protetti come patrimonio dell’umanità.
Survival mette sotto accusa il quadro di riferimento teorico che guida l’UNESCO nel selezionare i siti da proteggere e le pratiche di protezione che implicano sfratti forzati della popolazione locale e abusi gravissimi per scoraggiarla dal ritornare.
Caroline Pearce, direttrice generale di Survival International, chiarisce il concetto: “Quelli che l’UNESCO definisce ‘siti patrimonio naturale dell’umanità’ sono molto spesso terre ancestrali rubate ai popoli indigeni, che poi da queste terre vengono tenuti fuori con la forza, l’intimidazione e il terrore. La sua complicità è andata oltre il silenzio per arrivare fino a sostenere attivamente governi e iniziative che violano i diritti indigeni.”
Nell’introduzione del rapporto se ne chiarisce il titolo, che chiede di decolonizzare l’UNESCO, accusata di muoversi ancora nel contesto di una mentalità coloniale, secondo cui i popoli non europei, e a maggior ragione quelli nativi, non avevano le capacità politiche e le conoscenze scientifiche per governare e proteggere le proprie terre, sviluppando il concetto che, per salvaguardarle, fosse necessario un intervento esterno da condurre anche al costo di escludere e sfrattare gli abitanti locali.
È l’idea della “conservazione fortezza” che ancora va per la maggiore in molti circoli ambientalisti internazionali.
Nelle prime righe del rapporto si legge che “l’UNESCO ha svolto un ruolo importante nella diffusione della “conservazione fortezza” a partire dall’Africa, in particolare dopo la fine del dominio coloniale.
Negli anni che seguirono l’indipendenza dei nuovi stati africani, l’UNESCO ha giocato un ruolo centrale nel diffondere l’idea che la natura africana dovesse essere salvata attraverso l’intervento di “esperti” (principalmente ex-ufficiali coloniali), l’applicazione della scienza occidentale e la creazione di parchi nazionali che escludessero gli abitanti originari.
Il primo direttore dell’UNESCO, Julian Huxley – che in seguito fu uno dei fondatori del WWF – identificò esplicitamente le popolazioni locali africane come un “ostacolo alla conservazione” perché utilizzavano le risorse del territorio – legna da ardere, animali selvatici, erbe – per la propria sopravvivenza, in conflitto con lo stupore e il piacere che ne avrebbero potuto ricavare i colonizzatori, e poi i turisti.
In questo ha origine l’idea di creare aree protette “nelle terre dei popoli indigeni e senza il loro consenso”. Idea rafforzata poi dall’istituzione dei siti patrimonio mondiale in forza della quale “l’UNESCO mette gli ecosistemi che sono stati plasmati e abitati dai popoli indigeni sotto la tutela di una generica umanità”.
Solo più tardi l’UNESCO riconobbe che la conservazione era percepita come incompatibile con le esigenze delle comunità locali e così sviluppò il concetto di “conservazione comunitaria”, aggiornando politiche, linee guida e pratiche da applicare. Eppure ancor oggi, continua il rapporto “se la retorica è basata sulla comunità, la pratica è rimasta anti-comunitaria”.
I casi di Tanzania, Congo ed Rd Congo
Survival International lo dimostra analizzando la realtà in sei siti, tre in Asia (Nepal, India e Thailandia) e altrettanti in Africa, inclusi nella lista di quelli considerati patrimonio mondiale dell’umanità.
Dei siti africani, Nigrizia si è già occupata in diverse occasioni. Il rapporto mette ora in luce come l’UNESCO non si sia opposta alle violazioni e agli abusi contro le popolazioni che li abitano tradizionalmente, anzi come in più di un’occasione le sue disposizioni li abbiano originati.
Il primo esempio riguarda l’area di conservazione del Ngorongoro, in Tanzania. Secondo un leader maasai della zona: “Il sostegno dell’UNESCO viene usato per sfrattarci. Siamo davvero stanchi e confusi, non sappiamo quando moriremo”.
Dal 2010 la zona è riconosciuta come patrimonio misto, naturale e culturale, ma questo non ha portato al riconoscimento del ruolo e dei diritti territoriali dei maasai. Perfino il governo tanzaniano aveva sottolineato “l’eccezionale importanza dei maasai per un’efficace conservazione”, ma nella sua decisione l’UNESCO non ha fatto menzione, anzi ha ricordato la necessità di contenere la presenza dei maasai e delle loro attività nei confini del territorio protetto.
In altre occasioni aveva addirittura minacciato di eliminare il sito dalla lista di quelli patrimonio mondiale se non ci fossero stati interventi urgenti per limitare la presenza umana, richiesta che aveva aperto la porta ad abusi e violazioni nei confronti delle comunità maasai che vi risiedono. Per questo motivo i leader maasai hanno, loro, richiesto che Ngorongoro sia cancellata dai siti patrimonio mondiale.
Altro sito preso in considerazione è il Parco nazionale di Odzala-Kokoua, nella Repubblica del Congo, abitato tradizionalmente dai baka, che ne sono stati scacciati provocando il loro impoverimento economico e minacciando la loro identità culturale. “Abbiamo bisogno della foresta. I nostri figli non conoscono più gli animali né le nostre piante medicinali tradizionali. Ora i baka vivono lungo la strada. Dirvi questo mi fa male al cuore. Ma senza i baka, anche la foresta è malata”. Così uno di loro ha descritto la situazione.
Il parco è gestito da African Park, un’associazione conservazionista privata molto ben ammanicata (del suo board fa parte il principe Harry) che ha adottato un approccio militarizzato. Violazioni e abusi gravissimi contro la popolazione nativa sono all’ordine del giorno. Il parco è stato inserito nella lista dei siti patrimonio dell’umanità l’anno scorso anche se erano già ben conosciute le violazioni che vi erano perpetrate.
Inoltre era chiaro, dal documento presentato dal governo, che non erano state seguite le linee guida per la partecipazione delle comunità locali alla decisione di presentare la richiesta. Ma le due circostanze non hanno costituito un impedimento per la decisione del Comitato UNESCO.
Infine il rapporto presenta il caso del Parco nazionale di Kahuzi-Biega, nella Repubblica democratica del Congo, abitata dai batwa, dove gli abusi sono tali da far dire ad una donna, violentata ripetutamente da soldati e guardiaparco: “Viviamo nella foresta. Quando ci vedono, ci violentano. Se dovremo morire, moriremo, ma resteremo nella foresta”.
Violenze ributtanti contro la popolazione della foresta sono state documentate da Minority Rights Group (MRG) che le ha descritte come “parte di una politica istituzionale sancita e pianificata al più alto livello dalla leadership del parco”.
Nonostante tutto questo fosse ben conosciuto, il Comitato per il patrimonio mondiale ha chiesto al governo di “rafforzare la lotta contro il bracconaggio e di continuare i pattugliamenti … aumentare la portata e la frequenza dei pattugliamenti … evacuare gli occupanti illegali”.
In questo modo l’UNESCO ha di fatto legittimato e incoraggiato le operazioni che hanno portato agli abusi e alla violenza estrema contro i batwa.
Perciò, in occasione della celebrazione odierna, Survival International chiede all’UNESCO di:
- Smettere di sostenere abusi dei diritti dei popoli indigeni nel nome della conservazione
- Togliere lo status di Patrimonio dell’Umanità a qualsiasi sito in cui si verificano atrocità contro i diritti umani
- Promuovere un modello di conservazione basato sul pieno riconoscimento dei diritti territoriali indigeni
Questo anche in considerazione del fatto che i popoli indigeni sono i migliori custodi della biodiversità, conclude il rapporto, come dimostrano ultimi studi scientifici mai ampiamente accreditati.