Per decolonizzare qualsiasi cosa, ancora più un luogo che è specchio dell’immagine culturale di un’Europa che, proprio lì, si è voluta costruire e rappresentare in un determinato modo, occorre essere consapevoli che non solo il nostro sguardo, ma il nostro linguaggio, la nostra cultura scolastica, la toponomastica, il nostro intero sapere hanno una matrice coloniale. Il non avere consapevolezza di tutto questo, ci porta a entrare nei musei, soprattutto etnografici, affidandoci completamente.
In quel luogo rassicurante della nostra cultura, che è il museo, spesso entriamo lasciando fuori lo sguardo critico. Perché manca la consapevolezza che quella narrazione cui andiamo incontro non è “scientifica”, tutt’altro: è funzionale a un impianto epistemologico. È necessaria a costruire una identità superiore, una lettura etnocentrica del passato, così come del presente, di cui subiamo il retaggio. Per questo è importante leggere il libro dell’antropologa Giulia Grechi. Per assumere cognizione di tutto questo, per smaliziarsi e accedere al museo con una nuova prospettiva, richiederla, lavorare sul proprio sapere partendo da questo assunto.
Il testo di Grechi è denso di contenuto, ricco di esempi di pratiche artistiche che cercano di superare le pratiche di archiviazione e classificazione tipiche dei musei; che tentano di andare oltre la “mostrazione” di corpi razzializzati che abitano le varie esposizioni e, inevitabilmente, contengono in loro il germe del razzismo. Un esempio dimostrativo su tutti: il Museo della normalità europea che esplicita già dal nome cosa riteniamo “normale”, quale sia il nostro metro di valutazione, innanzitutto, e su tutto, noi stessi.
Noi, che abbiamo introiettato la modalità della distanza, propria dalla gerarchizzazione dei sensi cui ci hanno abituato i musei. La conoscenza primaria che passa proprio attraverso i sensi è interdetta in questi luoghi di cultura: si può solo guardare, non toccare, non avvicinarsi. Si toglie la corporeità e la relazione che può passare attraverso questa.
E allora, tra le varie realtà museali ed esperienze artistiche che troviamo nel libro, ecco la Museologia della rottura, con i suoi principi che rompono con l’idea del museo come istituzione sacra, con la sua retorica e la dittatura degli oggetti che lo abitano, sempre raccontato a partire dallo stesso sguardo conservatore ed eurocentrista, esposto secondo il ripetersi dello stesso schema corporativistico. Una rottura che restituisce lo sguardo critico, capace di mettere in discussione e destabilizzare le nostre conoscenze e certezze. Un libro sfidante che mette in luce come museo, nazionalismo e colonialismo parlino la stessa lingua. A chi si occupa di cultura, di sapere, di scuola, di giornalismo un’analisi da cui partire per poter lavorare a cambiare lo sguardo.