Chi di ispezione colpisce, di denuncia perisce. È così che il governo che criminalizza le navi ong, fermandole con blocchi amministrativi per aver effettuato più di un salvataggio, assegnando porti sempre più lontani (notizia di oggi la Geo Barents con 205 persone a bordo, partite dalla Libia, soccorse nel Mediterraneo centrale, attraccherà nella lontana Genova), viene segnalato al Tribunale penale internazionale.
Mediterranea Saving Humans, la cui nave Mare Jonio è stata oggetto di un’ispezione straordinaria, ordinata dal ministro Matteo Salvini, denuncia il ministro degli Interni Matteo Piantedosi all’ufficio del Procuratore del Tribunale penale internazionale, Karim Khan.
Lo fa inviando copia della dichiarazione che Piantedosi ha pubblicato sul social X, riguardante i respingimenti collettivi in Libia.
Sono 16.220 i migranti diretti verso le coste europee intercettati in mare e riportati in sicurezza in Libia da gennaio a oggi. Un dato che testimonia l’efficacia della collaborazione dell’Italia con i Paesi di origine e transito dei migranti nel contrastare i trafficanti di… pic.twitter.com/lkG5FLdI8R
— Matteo Piantedosi (@Piantedosim) September 19, 2024
Rivendicando la collaborazione che l’Italia ha con il paese africano nel contrastare le partenze, Piantedosi sottolinea come successo il respingimento di 16.220 persone migranti. Operazioni che di fatto si configurano come respingimenti collettivi.
Numeri importanti, registrati in un tempo breve, da gennaio a oggi. Numeri cui corrispondono però persone in carne e ossa che vengono riportate nei lager da cui fuggono.
È per questo che, secondo Mediterranea, «essendo la Libia “posto non sicuro”, come certificato dai più autorevoli organismi internazionali e dalle Nazioni Unite, nel caso di collaborazione ad attività di deportazione in quel paese di profughi e rifugiati, si configura il reato di violazione della Convenzione di Ginevra sui profughi e rifugiati e della Convenzione di Amburgo sul soccorso in mare».
Violazioni dei diritti con timbro governativo
Una segnalazione questa al Tribunale penale internazionale, con cui la ong che salva persone in mare spera si apra un’indagine.
D’altra parte è recente, sempre nei confronti di Piantedosi e del suo decreto, la denuncia contenuta dal report di Fro (Fundamental rights office) di Frontex, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere, in cui si sottolinea come in mare manchino navi dedicate al soccorso e salvataggio e come quelle poche presenti, a capo di ong, vengano perseguitate secondo norma ministeriale.
«Ci troviamo davanti a un regime di frontiera, dove la violazione dei diritti è una pratica quotidiana, innanzitutto di quel diritto universale che è la libertà di movimento, sancito da carte internazionali», spiega Beppe Caccia, cofondatore di Mediterranea.
«Quel che accade nel Mediterraneo centrale, respingimenti e morti, è frutto di politiche europee e italiane che finanziano violazioni sistematiche. L’ispezione speciale alla Mare Jonio, per mandato politico, si chiude dicendo “non vi abbiamo certificato come nave di soccorso, quindi dovete sbarcare tutte le strutture che avete a bordo che vi permettono di salvare le persone in mare, solo dopo potrete ripartire”. Ovvio che non lo faremo».
Insomma il braccio di ferro è ripartito, per quella ong, Mediterranea Saving Human che, lo racconta lo stesso Caccia, «è nata nel 2018 con la missione di sciogliersi. E lo farà però solo quando sarà l’Europa a farsi carico dei salvataggi in mare; quando verranno svuotati e chiusi i vari lager che contengono persone migranti; quando ci saranno canali legali e sicuri per entrare in Europa; quando verranno debellate quelle mafie con cui oggi si collabora, che di giorno governano, di notte gestiscono i campi di detenzione, all’alba le partenze in mare e nel pomeriggio i respingimenti. Per poi essere ricevute in Italia». Perché è questo quel che ha raccontato il noto caso Bija.
Racconti sopravvissuti: Ibrahima Lo
Eppure quel che accade, in quel lato della terra, oramai è noto. Reportage, report internazionali, dossier, video, testimonianze e libri raccontano da tempo cosa siano la Libia, i lager, le torture, la compravendita e lo schiavismo delle persone. Non c’è persona oramai che non può non sapere che la Libia è tutto tranne che un paese sicuro.
Una voce che racconta è quella di Ibrahima Lo, che dalla Mare Jonio è stato salvato e che sulla sua storia ha scritto in due libri: Pane e acqua. Dal Senegal all’Italia passando per la Libia e il recente La mia voce. Dalle rive dell’Africa alle strade d’Europa (entrambi per Villaggio Maori edizioni). Il primo ha fatto da canovaccio a Matteo Garrone per il suo celebre film Io capitano.
Lo incontriamo durante l’evento “Salvare non è reato”, organizzato dalle Brigate del lavoro di Flai Cgil, quel sindacato che ancora percorre le strade delle campagne, come faceva il suo fondatore, Giuseppe Di Vittorio con le Leghe bracciantili. Per essere lì dove il caporalato incombe, rispondendo a un sistema capitalistico che continua ad alimentarlo invece che combatterlo.
«Non è facile raccontare. Non è stato facile iniziare a farlo, non lo è continuare», afferma Lo.
«Ogni volta che si racconta si ripercorre il viaggio, la sofferenza, si piange dentro. Mentre scrivevo quello che sarebbe diventato il mio primo libro, a mano, continuavo a piangere e cestinare i fogli. Non ho scritto tutto, né tutto si può raccontare. Ma, come è capitato alla senatrice Liliana Segre per il suo racconto della Shoah, non ci si può sottrarre dal farlo. Il rischio sennò è che altri raccontino il non vero, come ad esempio che la Libia è un porto sicuro. L’ho sentito dire al ministro Salvini».
E il racconto di Lo smentisce ogni concetto di sicurezza lungo il viaggio migratorio. «Sono partito in una notte di Capodanno, che avevo 16 anni. Sono stato trattato come sono stati trattati i miei bisnonni, come uno schiavo. Comprato e venduto. Sono partito perché avevo il sogno di diventare giornalista. Mi è stato detto che in Europa avrei potuto realizzarlo. A casa, in Senegal, non avevamo neanche i soldi per i vestiti, i libri, la mensa scolastica. Arrivando in Libia, dopo la traversata nel deserto in cui ho rischiato, abbiamo rischiato, di morire, pensavamo fosse il paradiso, ma lì ho visto l’inferno. Ne ho sul corpo i segni».
I segni sul braccio li mostra mentre parla, tirandosi su la manica di una camicia bianca, raccontando come papa Francesco vi abbia poggiato le mani, sottolineando l’esistenza di cicatrici che non si cancellano e che si rivivono di continuo, come i racconti che Lo continua imperterrito a fare durante gli incontri.
«Quando noi 120 siamo stati salvati dalla Mare Jonio, un altro barchino con altrettante persone è affondato, ne racconto i nomi e le storie perché mentre io parlo oggi ancora accade. Adesso c’è qualcuno che sta vivendo la stessa storia che ho vissuto io. Non posso tacere».