Trovare la poesia in mezzo alla pandemia, tra le difficoltà della propria vita personale, che sembra andare a rotoli, e quella di coloro che vivono per strada o ai confini dell’Europa. Ultimi tra gli ultimi, sovrastati da notizie che li rendono ancora più invisibili. Perché ora le preoccupazioni e le paure sono volte al sé occidentale e finiscono per cancellare quelle di coloro che vivono fuori dalle nostre case, fuori dai nostri confini.
Perché persone senza dimora, migranti. Storta, allora, la direzione che si dà Filippo Kalomenìdis. Storta, rispetto a un tempo che detta altre priorità: la salute innanzitutto, la nostra. E non c’è spazio per altro. Ma non è così per l’autore di questo diario poetico, intimo e politico in cui i versi restituiscono il quotidiano di un uomo sardo/greco/georgiano/turco, che lascia il cinema industriale e televisivo, per il quale lavora, per mettersi in cerca di un altro verso alla propria vita.
Un’altra direzione, storta, ma in prima linea: nel volontariato della protezione civile bolognese con cui decide di scender per strada; in presenza, in quei campi di contenimento delle isole greche dell’Egeo, a Lesvos. Lì dove si trovano i cancellati dalle notizie e dalle politiche. Dove la reclusione è arrivata ben prima della pandemia, definendo contenimenti e confini profumatamente pagati e voluti dall’Europa. Lì dove si nasce, si vive, ci si riproduce e si muore. Ma dove è possibile intravvedere nuove città e cammini, che hanno altri versi, poetici.