Difficile inquadrare Disco Boy. In parte film di guerra e di critica sociale, con tratti mistici e surreali.
Senza dubbio, è un’opera audace. E di successo. All’ultimo Festival di Berlino, ha ottenuto l’Orso d’argento per il contributo artistico, grazie alla fotografia curata da Hélène Louvart.
La trama intreccia le vicende di due personaggi: Alexsei (Franz Rogowski) e Jomo (Morr Ndiaye). Il primo è un giovane bielorusso che, entrato clandestinamente in Francia, si arruola nella Legione Straniera per assicurarsi documenti in regola e un futuro stabile.
Il secondo è il capo della milizia del Mend, una formazione di stampo eco-terroristica attiva nella zona petrolifera del Delta del Niger, in Nigeria. È proprio nello stato africano che i loro percorsi si incrociano. Alexsei viene inviato a recuperare degli ostaggi francesi rapiti dal Mend. Durante la missione, si ritrova ad ingaggiare un corpo a corpo che si rivelerà fatale per Jomo.
Da lì in poi, Aleksei entra in una spirale di immedesimazione dalle tinte spiritualistiche con il suo ex-avversario occasionale.
Forte di questo legame, arriva a riconoscere, senza averla mai vista prima, Udoka (Laetitia Ky) la sorella di Jomo. La incrocia in una discoteca a Parigi, in cui lei lavora come danzatrice. Dal primo sguardo ha inizio un percorso di avvicinamento tra i due che si dipana fino alla fine del film.
L’Italia può rivendicare una parte di successo. La produzione è italo-franco-belga e il regista è il 39enne Giacomo Abbruzzese, talento nato e cresciuto a Taranto, laureato all’università di Siena e Bologna, e poi fiorito all’estero. Da anni di base in Francia – dove ha proseguito la sua formazione cinematografica – ha vissuto a lungo anche in Palestina, Canada e Belgio.
Un percorso nomadico che fa risaltare ancora di più la determinazione che ha dovuto dimostrare per realizzare Disco Boy. Il suo primo lungometraggio – arrivato dopo una serie di corti ben accolti dalla critica internazionale – ha richiesto ben dieci anni di gestazione e la volontà di girarlo in condizioni non ideali.
Nell’incontro con Nigrizia, partiamo da qui.
Disco Boy si presenta come un’opera costosa dal punto di vista della produzione. Quanto è stato complicato raccogliere il budget necessario?
Trovare i fondi per un primo lungometraggio non è mai facile. Dopo 10 anni, sono riuscito ad ottenere un budget di 3,5 milioni di euro e la possibilità di filmare il tutto in 32 giorni. Gli addetti ai lavori sanno che, in quel lasso di tempo, di solito si fanno le riprese per un film “salone-cucina” [un film girato in un unico ambiente casalingo, ndr]. Nel mio caso si trattava di filmare in ambienti urbani e foreste tropicali, tra Francia, Polonia e isola della Reunione, al largo del Madagascar.
Tant’è che c’è voluto molto per trovare un direttore di produzione e un assistente di regia. Dicevano, non a torto, che ci voleva più tempo e almeno un altro milione di euro.
Il risultato finale è vicino a quello che speravi?
Grossomodo sì. È venuto fuori un film piuttosto fedele a quello che avevo in mente.
Cosa avresti fatto con un budget più ampio?
Sicuramente mi sarei concesso più tempo. Le riprese sono state un vero tour de force. È stato il mio unico lavoro in cui non mi sono divertito sul set. Per dare un’idea del ritmo forsennato, ho perso 7 chili in un mese (ma dopo li ho anche recuperati tutti).
In Disco Boy, emergono molti soggetti: il rapporto tra l’Occidente predatorio e l’Africa, l’integrazione dei migranti in Francia, i danni ambientali legati all’industria. Si può individuare un tema dominante?
Se per questo intendiamo la volontà di vederci un messaggio lanciato da me, allora la risposta è no. L’importante per me non è fare un film a tesi, ma suscitare interrogativi. Punto piuttosto a uno storytelling che eviti le vie già battute. Cerco nuove prospettive su una questione politica da affrontare in modo poetico, artistico.
Da lì, l’idea di mettere insieme un bielorusso finito nella Legione Straniera con due guerriglieri del Mend: un accostamento decisamente poco ortodosso. Sono tutti personaggi che agiscono a partire dalla periferia dell’Occidente, in senso sociale o economico. E che cercano una vita migliore, ciascuno a modo proprio. Cos’altro li accomuna?
Volevo mostrare come alcuni personaggi ai margini della società approcciano le loro vite, evidenziando che lo fanno in base al loro immaginario e alle loro aspirazioni. Non si rassegnano alla loro condizione, ma vanno a cercarsi le vite che vogliono, con tutta la tragicità che può comportare.
Spesso invece nel cinema si ritrova un punto di vista classista – borghese per intenderci – che tende a rappresentare i ceti meno abbienti come mere vittime della loro condizione, incapaci di agire, di prendere le cose in mano.
Il Mend è presentata come un’organizzazione impegnata in una sacrosanta lotta contro le rapaci compagnie petrolifere. Nella realtà è noto come si siano presentati in questa veste ‘’nobile’’ nei loro primi anni d’attività, per poi prendere una deriva piratesca/mafiosa, fino a scomparire qualche anno dopo. Da dove nasce la scelta di lasciarli sotto un’ottica positiva?
Ero più che al corrente del banditismo del Mend. Ma non avevo pretese documentaristiche e realistiche, perciò non mi interessava spiegare o mettere in evidenza quest’aspetto. Volevo piuttosto portare in scena una certa idea astratta di Mend, quella legata alla rivendicazione anti-sistema sotto forma di eco-terrorismo. Allo stesso modo ho preso un’idea astratta di Legione Straniera.
Nel film, i guerriglieri del Mend parlano in Igbo, la lingua maggioritaria del sud-est della Nigeria. Ma nella realtà, al loro interno si parlava più che altro itshekiri e urhobo. Come mai questa differenza linguistica?
Il problema è che avevamo bisogno di un qualcuno sia sul posto, che poi a Roma, in sede di doppiaggio, che potesse fare da coach, accompagnando gli attori in registrazione. Non abbiamo trovato nessuno di disponibile per quelle due lingue. Abbiamo ripiegato sull’igbo, che nel Mend era comunque una lingua usata, seppur minoritaria.
L’attenzione alla lingue è un’altra caratteristica di questo film. Gli attori protagonisti non parlavano la lingua in cui si esprimevano. Cosa c’è dietro questo aspetto?
C’è un’idea politica, di andare al di là dei confini nazionali. Anche se, paradossalmente, la prima parola che si sente pronunciare nel film è ‘’passaporto’’, durante la scena iniziale del controllo documenti alla frontiera.
Per venire agli attori: hanno dovuto imparare a memoria le battute in una lingua che non parlavano, cosa che complica il lavoro di recitazione. Ma per me era importante sceglierli in base a come recitavano e non per la loro nazionalità.
I danni dell’industria all’ambiente nel Delta del Niger possono apparire molto lontani, visti dall’Italia. Forse lo sono un po’ meno per chi è cresciuto a Taranto, martoriata dal complesso siderurgico dell’Ilva.
Venire da una città segnata da problemi di questo genere, come Taranto, mi ha sicuramente reso sensibile a tematiche ambientalistiche. Avevo dedicato un mio cortometraggio (Fireworks, uscito nel 2011, ndr) proprio a questo soggetto. Lì, un gruppo di ecologisti internazionali faceva saltare in aria il complesso dell’Ilva nella notte di capodanno, nel mezzo dei fuochi di mezzanotte.
Prossimi progetti?
Disco Boy è il mio film politico sulla Francia. Punto a farne uno sull’Italia.