Di fronte all’annuncio dell’uscita di una nuova versione del classico natalizio Do They Know It’s Christmas? di Band Aid, Ed Sheeran ha manifestato sui social il suo disappunto per l’utilizzo della sua voce senza consenso. La polemica va al di là della musica e riguarda la rappresentazione dell’Africa e delle persone africane che emerge da questo tipo di eventi di beneficenza, spesso elogiati per il loro impatto immediato. Delle conseguenze a lungo termine però, come sottolinea anche Dipo Faloyin nel libro L’Africa non è un paese, non si tiene invece conto. Ma ci sono, e sono importanti.
Un passo indietro: Band Aid 30, 2014
Sheeran aveva preso parte a Band Aid 30 nel 2014, terzo rifacimento della canzone uscita per la prima volta nel 1984 con lo scopo di raccogliere fondi per contrastare la carestia in Etiopia. Ora, in occasione di Band Aid 40, ha scritto su Instagram che se avesse saputo che la sua registrazione del tempo sarebbe stata riutilizzata, avrebbe rifiutato. “La mia comprensione della narrazione associata a questa canzone è cambiata”, ha scritto Sheeran, associandosi alle critiche del rapper britannico-ghanese Fuse ODG, che già nel 2014 aveva rifiutato di partecipare al progetto, definendolo una perpetuazione di stereotipi dannosi sull’Africa.
Come ha ribadito in alcune interviste recenti, queste narrazioni non solo minano la dignità e il senso di orgoglio dei cittadini africani. Ostacolano anche investimenti e turismo, frenando di fatto le principali vie di sviluppo del continente, attraverso la diffusione di un’immagine stereotipata del continente. Un messaggio emblematico del crescente rifiuto verso la rappresentazione paternalistica e sensazionalistica delle problematiche del Sud globale, un fenomeno spesso definito come “poverty porn”.
Il caso di Ed Sheeran e il Rusty Radiator Awards
Da parte di Sheeran si tratta infatti di un cambio di rotta tutt’altro che banale, se si tiene conto che il suo impegno in campagne umanitarie negli anni passati ha attirato diverse critiche, per usare un eufemismo. Nel 2017, un video girato in Liberia per Comic Relief e ritenuto da diverse figure del settore un trionfo di “poverty porn”, lo mostrava visibilmente commosso mentre prometteva di aiutare due bambini senza dimora. Questo gesto, pur mosso da buone intenzioni, gli è valso un Rusty Radiator Award, riconoscimento ironico assegnato alle campagne che meglio incarnano il cosiddetto “complesso del salvatore bianco”.
Secondo l’organizzazione norvegese SAIH, promotrice del premio, quel video mancava di contesto politico e strutturale, trasformando la sofferenza umana in un mero strumento emotivo per stimolare donazioni. Il rischio di queste narrazioni è duplice: rafforzano la distinzione tra un “noi” caritatevole e un “loro” passivo e bisognoso, e trasmettono l’idea – errata – che la carità sia l’unica risposta alla povertà. Una rappresentazione unidimensionale del bisogno, per altro decontestualizzato.
Una nuova sensibilità sul “poverty porn”
Negli ultimi anni, le critiche al “poverty porn” si sono intensificate, grazie anche a campagne parodistiche come quella di Radi-Aid, che nel 2012 invitava sarcasticamente gli africani a “donare radiatori per la Norvegia” per affrontare il freddo invernale. Queste iniziative puntano a trasformare la narrativa della beneficenza in un approccio di solidarietà e partnership.
Nonostante la strada sia tutt’altro che terminata, un cambiamento inizia a vedersi anche nel mondo umanitario, dove alcune organizzazioni stanno via via abbandonando immagini e linguaggi paternalistici e de-umanizzanti. E il fatto che anche dal mondo della musica arrivino segnali di crescente consapevolezza è certamente positivo. (AB)