Nuovi problemi per il governo ugandese, determinato a portare avanti il controverso progetto petrolifero East African Crude Oil Pipeline (EACOP), un’infrastruttura in costruzione fra Uganda e Tanzania che una volta completata sarà il più grande oleodotto riscaldato al mondo.
La pressione esercitata dagli attivisti climatici, ambientali e per i diritti umani ha infatti portato al ritiro del coinvolgimento di 28 compagnie assicurative, tra cui SiriusPoint, Riverstone International, Enstar Group, Blenheim e SA Meacock.
Il progetto, guidato per il 60% dal colosso energetico francese TotalEnergies e che dovrebbe entrare in funzione nel 2025, segna dunque una nuova battuta d’arresto perché al momento gli assicuratori locali non possono garantire più del 30% della copertura necessaria.
E gli attivisti fanno sapere che la loro pressione aumenterà ora anche sulle altre società assicuratrici che continuano a parteciparvi, tra cui figurano AIG, Tokio Marine, Chaucer e Hiscox.
L’oleodotto e il collegato progetto di estrazione petrolifera all’interno e nei dintorni di areee ambientali protette sono contestati da anni per il devastante impatto sugli ecosistemi e sulle popolazioni locali.
Anche sul fronte dei finanziamenti il progetto sta affrontando notevoli problemi dopo che la campagna internazionale degli attivisti ha portato al ritiro delle banche occidentali e al tentennamento dei finanziatori cinesi che tardano a sbloccare gli oltre 3 miliardi di dollari promessi.
Cosa che sta facendo lievitare i costi.
Il mese scorso il quotidiano The East African riferiva che, secondo fonti del settore, gli istituti di credito cinesi Sinosure ed Exim Bank stanno valutando le potenziali ripercussioni di un loro coinvolgimento e non prenderanno una decisione definitiva prima di almeno sei mesi.
Un periodo di tempo troppo lungo per TotalEnergies che potrebbe quindi farsi carico dell’esborso in cambio di un aumento delle sue quote di entrate petrolifere, cosa che comporterebbe la rinegoziazione dei patti di compartecipazione alle entrate tra i governi di Uganda e Tanzania (che detengono ciascuno il 15%) e la China National Offshore Oil Corporation (CNOOC), che detiene l’8%.
Uno scenario che alcuni media stranieri hanno riportato come già in corso ma che il governo ugandese nega.
«Il governo (ugandese) ha attualmente oltre 25 miliardi di dollari di debiti, l’80% dei quali è stato accumulato durante il periodo in cui ha portato avanti questi progetti petroliferi. Il governo ora è disperato e probabilmente abbasserà le sue aspettative per attirare gli investitori”, secondo Dickens Kamughisha, direttore esecutivo dell’Africa Institute for Energy Governance (Afiego) con sede a Kampala.