Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi è stato confermato presidente con l’89,6% dei voti. Secondo l’autorità elettorale si è recato alle urne dal 10 al 12 dicembre il 66,8% degli elettori, una percentuale più alta rispetto al 41% della precedente tornata elettorale.
Dopo le presidenziali del 2014 e del 2018, nel 2019 un referendum costituzionale aveva permesso ad al-Sisi, che aveva confermato la volontà di ricandidarsi lo scorso ottobre, di essere rieletto.
La campagna elettorale
La campagna elettorale è stata breve e quasi inesistente. L’unico candidato che aveva qualche chance di raccogliere parte dei voti del dissenso, Ahmad Tantawi, non ha potuto partecipare perché non ha raggiunto le 25mila firme necessarie in 15 diversi governatorati.
Numerosi sono stati gli arresti tra chi sosteneva la sua campagna, segnata anche da accuse di hackeraggio del suo cellulare.
I candidati ammessi hanno finito per essere uomini della nomenclatura del presidente in carica, come il capo del Partito repubblicano popolare Hazem Omar (al secondo posto con il 4,5% dei voti), il capo del Partito socialdemocratico Farid Zahran (4%) e il candidato del partito liberale Wafd, Abdel Sanad Yamama (1,9%).
Ci sono stati 196 arresti di attivisti accusati di aver preso parte in proteste non autorizzate o di aver diffuso notizie false.
«Noi crediamo che dopo le elezioni ci sarà una nuova grande ondata repressiva con arresti di attivisti di opposizione. Forse peggiore del passato e sarà per al-Sisi più facile continuare a reprimere le opposizioni», ha commentato a Nigrizia l’attivista dei Socialisti rivoluzionari, Mahiennour el-Masry.
Prima di tutto, per motivare i sostenitori di al-Sisi ad andare a votare c’è stata di sicuro la guerra che va avanti dal 7 ottobre scorso tra Israele e Hamas. Le prime manifestazioni pro-Palestina in Egitto si sono svolte il 13 ottobre scorso alle porte del Sindacato dei giornalisti al Cairo.
Nonostante il diffuso sentimento anti-Hamas che attraversa i sostenitori del regime egiziano sin dal golpe del 2013, la maggioranza degli egiziani è contraria al possibile spostamento di migliaia di palestinesi di Gaza nel Sinai.
E così, alle tradizionali proteste della sinistra egiziana per la Palestina, si sono affiancate le manifestazioni, preparate ad hoc dal regime con la partecipazione dei sostenitori di al-Sisi in ogni governatorato.
«Noi come generazione di 40enni, e le generazioni più giovani di 20enni, insieme ai più anziani, abbiamo riattivato i Comitati popolari per il sostegno ai palestinesi», ha aggiunto el-Masry. «Ma le persone comuni hanno ancora paura di protestare, considerando la repressione degli ultimi anni».
«Nelle proteste pro-Palestina del 2000, 2003 i contestatori non avevano in mente una tradizione di arresti e repressione di massa come quella che hanno ora, dopo il 2011-2013. Al-Sisi ha affrontato il voto in una fase di debolezza ma ha molta fortuna, non ho mai visto qualcuno più fortunato di lui. Vuole essere rappresentato come un ‘eroe patriottico’», ha concluso el-Masry.
Il populismo di al-Sisi
Questa scontata conferma permette di tracciare un primo bilancio di quasi dieci anni al potere del presidente Abdel Fattah al-Sisi. L’ex generale è diventato presidente nel 2014, nonostante anche allora sia stata scarsa la partecipazione al voto, dopo il golpe militare del 3 luglio 2013 e la presidenza ad interim di Adly Mansour che ha avviato la stagione della repressione che ancora attraversa il paese.
Una volta ottenuto il potere, l’ex generale ha battezzato un discorso populista che ha poi ispirato altri leader della regione, come il presidente tunisino Kais Saied, cercando di promuovere se stesso come un leader nazionalista.
In altre parole, ha voluto rappresentare come motivo di orgoglio nazionale, all’inizio del suo primo mandato, l’indipendenza egiziana dagli aiuti militari provenienti dagli Stati Uniti, pari a 1,3 miliardi di dollari l’anno, per poi abdicare completamente alle richieste di Washington dopo l’elezione di Donald Trump.
Anche al-Sisi all’inizio della sua presidenza aveva cercato di auto-rappresentarsi come un nuovo Nasser. Ha coinvolto nel suo primo governo uomini della sinistra egiziana. Ha descritto il golpe del 2013 come contrario agli interessi promossi da Obama nella regione. In altre parole, secondo il suo discorso politico, l’ex presidente USA avrebbe sostenuto l’ascesa politica dei Fratelli musulmani.
Invece, se anche Obama ha lasciato che le ripetute tornate elettorali facessero il loro corso in Egitto dopo le rivolte del 2011, non ha certo difeso l’ex presidente, Mohammed Morsi, e la leadership politica della Fratellanza dopo il golpe del 2013.
Al-Sisi ha invece voluto mostrarsi come il braccio destro di Vladimir Putin, sostenitore di al-Assad in Siria, e impegnato ad agire negli interessi dell’Arabia Saudita nella regione, per esempio con il trasferimento della sovranità delle isole egiziane di Tiran e Sanafir (2016) ai sauditi, nonostante la decisione abbia provocato un’inedita ondata di proteste in quella fase di estremo controllo e repressione. Il suo predecessore, Gamal Abdel Nasser seppe invece scontrarsi duramente con gli interessi sauditi nella regione.
Al-Sisi si è poi mostrato militarmente aggressivo, con attacchi in Libia (ha trattato la Cirenaica come un’estensione egiziana), in Yemen (a sostegno degli interessi sauditi) e, per esempio, per lo sbilanciamento a sostegno degli interessi delle autorità israeliane durante l’Operazione Protective Edge nel 2014.
Al-Sisi ha infine fatto appello a una forma radicata di xenofobia, per esempio in relazione alle migliaia di migranti siriani e palestinesi, residenti in Egitto o emigrati in seguito alla guerra in Siria, che hanno visto strappati i loro documenti e sono stati costretti a lasciare il paese. E perciò, secondo al-Sisi, «gli egiziani dovrebbero venire prima di tutto».
In realtà il paese sta attraversando una crisi economica che impoverisce le classi più disagiate, mentre i tagli alla spesa pubblica, voluti dall’ex generale per rispondere alle richieste di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale – che si appresta a fornire una nuova tranche di aiuti di 3 miliardi di dollari al Cairo -, gli arresti di massa di islamisti ed esponenti della sinistra egiziana, molti dei quali ancora restano in prigione, il controllo sulle organizzazioni non governative, sulla stampa indipendente, su tutte le forme di opposizione, il divieto di scioperi e gli arresti di operai, sono il vero volto della gestione politica ormai decennale del regime militare di Abdel Fattah al-Sisi.