Baher Mohamed è un giornalista egiziano arrestato nel dicembre del 2013 insieme ad altri due colleghi di Al-Jazeera, la tv del Qatar. Il loro arresto aveva scatenato una campagna mediatica globale per chiederne il rilascio e il rispetto della libertà di espressione. Condannato a scontare dieci anni di carcere con l’accusa di terrorismo e pubblicazione di notizie false, Mohamed ha ricevuto la grazia presidenziale nel settembre 2015. Da allora, si è trasferito a Doha, dove continua a lavorare per l’emittente qatarina.
A ormai dieci anni dal suo arresto, com’è cambiato il rapporto tra il regime egiziano, i mezzi di comunicazione e l’opinione pubblica?
Penso che l’attuale regime guidato da Abdel Fattah al-Sisi sia ben peggiore di quello che raccontavo quando ancora mi trovavo in Egitto. Anche prima che io, Peter Greste e Mohamed Fahmy venissimo arrestati, le autorità egiziane hanno fatto di tutto per intimidire, minacciare e imbavagliare i giornalisti che svolgevano con professionalità e dedizione il proprio mestiere.
Conservo il ricordo di numerosi incontri con colleghi stranieri nei bar e ristoranti del Cairo per scambiarci opinioni, idee e prospettive sulla politica, l’economia e la società egiziana. Oggi tutto questo non esiste più, la maggior parte delle colleghe e dei colleghi hanno lasciato l’Egitto e coprono gli eventi della regione da altre città, come Beirut e Istanbul. Con dispiacere e tristezza nel cuore, penso che al-Sisi abbia avuto successo nell’appiattire il dibattito pubblico e a fare dei media una cassa di risonanza per il regime.
Quali rischi corre chi, per lavoro, è percepito dal regime come un ostacolo?
In un sistema mediatico fortemente controllato dalle forze armate, Mada Masr è tra i pochi giornali indipendenti rimasti che continuano a muovere delle critiche contro al-Sisi e il suo governo. Tuttavia, il suo staff è continuamente sottoposto a minacce e forme d’intimidazione. Nel novembre del 2019, almeno nove agenti in borghese hanno fatto irruzione nella sede del giornale, sequestrando computer e telefoni, e trattenendo per alcune ore tre giornalisti.
Oggi, se vuoi scattare fotografie ti occorre un permesso, se vuoi riprendere con la videocamera ti occorre un altro permesso, e se vuoi intervistare delle persone in luoghi pubblici ti occorre un altro permesso ancora. Anche se li ottenessi, questo non ti assicura di non essere fermato dalla polizia, la quale può bloccare il tuo lavoro in qualsiasi momento.
Ci sono poi persone come Mahienour el-Masry, avvocata per i diritti umani, o il direttore esecutivo dell’organizzazione Egyptian initiative for personal rights (Eipr), Hossam Bahgat, che considero dei veri e propri eroi contemporanei per il coraggio che dimostrano nel portare avanti il lavoro, nonostante corrano il rischio di finire (o di ritornare) in galera. Da questo punto di vista, al-Sisi non sta semplicemente uccidendo la libertà d’espressione, ma ogni forma di libertà.
Lo scorso aprile, il giornalista di al-Jazeera Hisham Abdel Aziz è stato liberato dopo aver trascorso quattro anni in prigione. Chi sono gli altri suoi colleghi attualmente detenuti in Egitto?
Ci sono due giornalisti, Rabee al-Sheikh e Bahaa al-Din Ibrahim, che lavorano per Al-Jazeera Mubasher, un partner del gruppo Al-Jazeera Media Network. Entrambi sono rientrati in Egitto per trascorrere un periodo di vacanza con le rispettive famiglie, ma sono stati arrestati non appena hanno messo piede in aeroporto, o alcuni giorni dopo.
Nel 2019 al-Sisi ha promosso alcune modifiche costituzionali che gli consentono di esercitare un maggior controllo sul sistema giudiziario egiziano. Quali conseguenze ci si aspetta da questo processo di politicizzazione?
Ritengo che non sia un sistema in grado di garantire giustizia. Fin dal 2011 l’esercito si è impegnato a collocare persone legate alle forze armate nei punti chiave dell’ordinamento egiziano, dalla politica alle aule di tribunale, sino alle università e ai sindacati di categoria. Se considero il mio caso giudiziario, la procura non ha mai fornito alcuna prova che giustificasse la mia detenzione e quella dei miei colleghi. Dopo circa dieci incontri in cui ho risposto alle domande degli ufficiali giudiziari, mi è stato chiesto di firmare il resoconto stenografico degli interrogatori a cui avevo preso parte.
Leggendolo, ho capito che mi si accusava di crimini che non avevo mai commesso e mi sono rifiutato di firmarlo. A quel punto, un ufficiale si è avvicinato dicendo: «Se non firmi immediatamente questi fogli porteremo qui tua madre e tua moglie. Sappiamo molto bene come convincerti a firmarli». È stato in quel momento che ho perso le poche speranze che nutrivo per la creazione di un vero sistema giudiziario. Storie come la mia non sono un’eccezione, ma costituiscono una pratica diffusa che non può in alcun modo essere associata al concetto di giustizia.
Un sistema giudiziario appiattito sulle posizioni dell’esecutivo e in cui il presidente della repubblica sceglie il capo della Procura generale e quello del Consiglio supremo giudiziario non può essere un sistema fondato sul principio di giustizia.
Il 10 dicembre ci saranno le elezioni presidenziali in Egitto. In che modo al-Sisi, candidato per un terzo mandato, può trarre vantaggio dal clima repressivo interno e, contemporaneamente, dal ruolo che sta cercando di ritagliarsi a livello internazionale nella guerra tra Israele e Hamas?
Al-Sisi vincerà a mani basse le prossime presidenziali. Mi aspetto un’affluenza molto bassa, che il regime cercherà di compensare spalmando il voto in due o tre giorni, così come avvenuto in passato. La gente riponeva qualche speranza in sfidanti come Ahmed Tantawi. Ma pure lui è stato tagliato fuori dalla corsa elettorale: è stato accusato di aver falsificato la raccolta di firme. Si dovrà presentare il 28 novembre in Tribunale.
Un finale già scritto: nelle scorse settimane, infatti, erano stati registrati diversi casi di intimidazioni e minacce rivolte contro i suoi sostenitori, ai quali è stato impedito di depositare le firme. Più che un’elezione sarà uno show autocelebrativo e propagandistico. Per quanto riguarda il dossier palestinese, al-Sisi ha cercato di porre l’Egitto come un attore centrale per gli equilibri regionali organizzando il summit per la pace e questo aspetto sarà senz’altro enfatizzato dai media egiziani.
Tuttavia, l’incontro non ha prodotto alcun risultato concreto per ottenere un cessate il fuoco e accelerare l’invio degli aiuti umanitari. Il fallimento del summit è un segnale della debolezza egiziana sullo scacchiere regionale.