La navigazione sta riprendendo nel canale di Suez dopo sei giorni di blocco. La portacontainer Ever Given, lunga 400 metri, si era incagliata in diagonale una settimana prima fermando il traffico di circa 400 navi nel Mediterraneo e nel Mar Rosso. Le operazioni di salvataggio della Ever Given hanno coinvolto una flotta di 14 rimorchiatori, guidata dall’olandese Boskalis, che hanno spostato 30 mila metri cubi di fango e sabbia per rendere possibili le operazioni di disincaglio della nave.
Circa il 12% del commercio mondiale e l’8% del gas naturale passano attraverso il canale di Suez, lungo 193 chilometri. Per liberare completamente il passaggio ci vorranno settimane, secondo Michelle Wiese Bockmann, giornalista di Lloyd’s List. «A quel punto i cargo arriveranno tutti insieme nei porti europei e causeranno ritardi e congestioni del traffico. Lo stesso succederà nei porti asiatici in attesa dei box vuoti per il nuovo carico», ha spiegato Wiese alla Bbc.
E così, i costi del commercio marittimo sono destinati ad aumentare in Europa e in Asia, proprio in una fase delicata in cui il settore sta gestendo l’impatto della pandemia.
I costi del blocco di Suez
Il più grande blocco di Suez dalla guerra arabo-israeliana del 1973, ha causato degli effetti economici senza precedenti. La Ever Given che pesa 200 mila tonnellate e trasporta 18.300 container, appartiene alla compagnia di trasporto taiwanese Evergreen Marine, una delle più grandi al mondo.
Sarebbe stato il vento forte a causare l’incidente, su cui l’autorità del canale di Suez (Sca) ha avviato indagini, per accertare se ci siano stati anche errori umani. La Sca ha stimato 14-15 milioni di dollari di perdite al giorno per i profitti quotidiani derivanti dall’uso del canale che contribuisce al 2% del Pil egiziano.
Secondo la tedesca Allianz, il blocco potrebbe costare al mercato globale tra i 6 e i 10 miliardi a settimana e ridurre la crescita del commercio globale tra fino allo 0,4%. Secondo il Wall Street Journal, il costo di navigazione di alcuni cargo, diretti e provenienti dall’Asia e dal Medio Oriente che stanno evitando il canale di Suez, è aumentato del 47% con un’aggiunta di 8 giorni di navigazione.
Il blocco non ha effetti soltanto sul commercio marittimo e sull’economia egiziana ma anche sui trasporti locali, sulle vendite, su supermercati e catene di grande distribuzione, e sull’industria manifatturiera.
Il Canale di Suez da Nasser ad al-Sisi
Il canale originale, nazionalizzato dal presidente egiziano Gamal Abdel Nasser nel 1956, era lungo 193 chilometri, 80 dei quali già a doppia corsia (una bretella di 53 chilometri è stata aggiunta nel 1980). Con l’estensione inaugurata il 6 agosto 2015 alla presenza del presidente francese François Hollande e del premier russo Dimitry Medvedev, si è passati a 115, 5 chilometri percorribili nei due sensi (35 chilometri in più).
In altre parole, cargo e navi mercantili hanno potuto raggiungere i porti della Gran Bretagna partendo dai paesi del Golfo in 14 giorni anziché 24. Si sono anche accorciati i tempi di attesa per le navi dirette in Europa: da undici a tre ore. Si sono ridotti anche i tempi di attraversamento del canale (da 18 a 11 ore).
Secondo i piani, si sarebbe dovuti passare così dalle 49 navi al giorno che attraversavano Suez prima del 2015, a 97. Eppure, l’opera, costata 8 miliardi di dollari, ha accresciuto i profitti del canale di Suez di appena il 4,7% tra il 2015 e il 2019, ben al di sotto dei 100 miliardi all’anno annunciati alla vigilia.
Molti analisti critici nei confronti del progetto di estensione del canale di Suez, avevano sottolineato che gli effetti sull’economia egiziana in seguito alla realizzazione dell’opera sarebbero stati minimi. Non solo. I lavori per l’estensione del passaggio hanno fatto registrare un impatto ecologico consistente e non sono stati disposti studi sufficienti per l’impatto ambientale dell’opera.
1.500 case sono state rase al suolo per la costruzione dei cantieri e 5mila abitazioni sono state distrutte lungo lo scavo. Gli abitanti di Ismailia hanno denunciato di non aver ricevuto nessuna compensazione per aver perso la loro casa. Durante i lavori, poi, gli ingegneri hanno riscontrato quantità eccessive di acqua da drenare che hanno fatto temere per la stabilità dell’opera.
In più, al-Sisi aveva promesso per la realizzazione della bretella la creazione di “un milione di posti di lavoro”. Eppure l’opera non ha inciso sugli alti tassi di disoccupazione giovanile che restano preoccupanti in Egitto.
Effetti geostrategici e le prove di disgelo tra Egitto e Turchia
Il blocco del canale sta spingendo ancora una volta gli interessi dei paesi del Golfo, produttori di petrolio e di gas, a esplorare vie alternative per evitare Suez, come già stanno facendo gli Emirati Arabi Uniti in seguito al raggiungimento degli accordi di Abramo (2020).
Tutto questo mentre il Sinai è tutt’altro che stabilizzato. Dopo gli attacchi jihadisti ai gasdotti (2012) e gli attentati dei gruppi terroristici locali Beit al-Meqdisi e Wilayat Sinai, affiliati all’Isis, dal 2014 le autorità egiziane hanno imposto lo stato di emergenza sulla regione, esteso ancora una volta per tre mesi lo scorso 22 gennaio. Il conflitto nel Sinai ha sin qui provocato migliaia di morti tra jihadisti, militari, poliziotti, beduini e civili.
Tra il 2013 e il 2020, l’esercito egiziano ha distrutto oltre 12 mila case, soprattutto nell’area di al-Arish e ha espropriato almeno 6 mila ettari di terreno, producendo circa 100 mila sfollati interni in nome della lotta al terrorismo e per la costruzione di due zone cuscinetto ad al-Arish e al valico di Rafah con la Striscia di Gaza.
Intanto, con la scoperta nel 2015 del giacimento di gas Zohr IX, l’Egitto è diventato il secondo produttore di gas in Africa. Questo anche grazie alla gestione del canale di Suez e della Suez-Med Pipeline. E così anche la Turchia ha considerato la questione del gas naturale nella regione con la lente della sovranità nazionale, valutando i confini delle Zone economiche esclusive tra Cipro, Israele ed Egitto come una violazione della sovranità nazionale turca.
In particolare, le scoperte di gas naturale, come quella che risale al 20 luglio 2020 di un giacimento che potrebbe produrre 320 miliardi di metri cubi di gas, e gli sforzi per il loro sfruttamento, hanno creato l’opportunità di nuove alleanze geopolitiche che possono influire sugli equilibri di potere regionali. E così l’accordo tra Israele, Grecia, Egitto e Cipro in merito ai confini marittimi e la realizzazione del gasdotto EastMed sono preoccupazioni centrali per gli interessi turchi.
Questo ha spinto Ankara ad accrescere la sua presenza militare nel Mediterraneo. E anche a guardare con più indulgenza verso il Cairo. Egitto e Turchia sono ora impegnate a tessere un possibile lento riavvicinamento nonostante la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, sostenuta anche dall’accordo di libero scambio con Londra nel post-Brexit, sia stata per anni il più acerrimo nemico di al-Sisi. Il presidente turco si è sempre rifiutato di riconoscere la legittimità di al-Sisi dopo il golpe del 2013, continuando a difendere i Fratelli musulmani egiziani.
Eppure una ripresa dei rapporti diplomatici e di intelligence tra i due paesi potrebbe avere delle conseguenze significative sugli ingenti interessi reciproci nel mercato del gas, e avrebbe sicuramente rilevanza nel superamento dello stallo del conflitto in Libia, in seguito all’insediamento del governo di unità nazionale di Abdul Hamid Dbeibah, e dopo le prove di riavvicinamento tra Arabia Saudita e Qatar, il maggiore sostenitore dei Fratelli musulmani nella regione.
Al-Sisi e il sostegno internazionale
E così, nonostante la costante violazione dei diritti umani, i crescenti tassi di povertà e il disastro in termini di immagine del blocco di Suez, il presidente egiziano continua a godere di un forte sostegno internazionale.
Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, aveva promesso che con la sua elezione sarebbero finiti i tempi della “carta bianca” al “dittatore preferito” di Donald Trump, ma gli Usa hanno confermato lo scorso 18 febbraio forniture militari per un valore di 197 miliardi di dollari al regime militare di al-Sisi. E così, senza più timori di rappresaglie, il Cairo ha continuato con arresti arbitrari e intimidazioni, inclusi i familiari dell’attivista egiziano-americano, Mohamed Sultan.
Oltre a una guerra paranoica e sotterranea dentro e fuori il paese contro i Fratelli musulmani, al-Sisi ha sempre avuto l’intenzione di accreditarsi come modello di stabilità in Medio Oriente puntando sul riconoscimento internazionale di Stati Uniti, Italia, Francia e altri paesi, in alcuni casi comprando materialmente il loro sostegno anche con miliardi di dollari per armi e fregate.
Come ha rivelato un gruppo di giornalisti egiziani del Sasapost, dopo il massacro di Rabaa al-Adaweya (2013) – costato la vita a migliaia di sostenitori dei Fratelli musulmani e la sospensione di 260 milioni di dollari di aiuti militari, sul totale di 1,3 miliardi annui, da parte degli Stati Uniti, al tempo della presidenza di Barack Obama – il governo egiziano ha pagato 13,2 milioni di dollari soltanto al gruppo Glover Park per fare attività di lobbying sui senatori Lindsey Graham e John McCain, e ottenere il ripristino degli aiuti militari Usa.
Come se non bastasse, al-Sisi ha anche raggiunto nel 2015 un accordo con Etiopia e Sudan per la costruzione della diga della Rinascita etiopica (Gerd). Questo è stato uno dei temi più controversi nel periodo al potere (2012-2013) dell’ex presidente, Mohamed Morsi, morto in detenzione nel 2019.
Morsi si era detto pronto a bombardare la diga che avrebbe potuto diminuire il controllo egiziano sulle acque del Nilo e per questo venne ridicolizzato e criticato. Ora che l’opera è nelle fasi finali di realizzazione, lo stesso al-Sisi ha ammesso di poter prendere in considerazione un’azione militare.
Lo stop al commercio globale dopo il blocco di sei giorni di Suez potrebbe aprire nuovi scenari geostrategici regionali, spingendo molti paesi a trovare vie alternative per evitare il canale.
Non solo, la temporanea chiusura del passaggio di Suez potrebbe, da una parte, favorire il riavvicinamento tra vecchi nemici regionali, come Egitto e Turchia, in nome degli interessi reciproci legati al mercato del gas nel Mediterraneo orientale e, dall’altra, chiarire agli occhi della comunità internazionale le mille contraddizioni del presidente Abdel Fattah al-Sisi che in nome della salvaguardia della sua immagine e di quella dell’esercito, di una millantata stabilità politica, sinonimo di repressione permanente, sta esacerbando le crisi regionali e le carenze infrastrutturali del paese.