In Kenya le elezioni sono sempre state un momento critico. Il voto, espresso tradizionalmente su linee etniche, e le aspettative conseguenti per la gestione del potere e delle risorse hanno spesso portato a confronti accesi e, talvolta, a scontri sanguinosi.
La tornata elettorale – che si è conclusa il 15 agosto con la proclamazione di William Ruto come neo presidente – ha presentato elementi di continuità con il passato, ma anche interessanti novità.
Come sempre la campagna elettorale è stata lunga e infuocata, caratterizzata da accuse infamanti per gli avversari. In linea, comunque, con la tradizione. Così come lo è stata la conclusione del processo, con la denuncia di brogli nel conteggio dei voti e il ricorso al potere giudiziario affinché dia il suo verdetto sulla regolarità del lavoro della commissione elettorale.
Un contesto che aveva generato timori per un possibile sbocco violento del voto come era successo, quasi regolarmente, in passato. Invece, anche a detta degli osservatori stranieri più intransigenti, le operazioni di voto si sono svolte, in generale, in modo ordinato e pacifico. La gente non è scesa nelle strade neppure dopo il contestato annuncio del vincitore.
E questa è stata la prima, importante, novità. La seconda è il drastico calo dell’affluenza alle urne. Solo poco più del 65% dei kenyani iscritti alle liste elettorali ha votato. Erano stati circa il 78% nel 2017 e poco meno dell’86% nel 2013. Anche l’iscrizione al registro degli elettori è stata molto più bassa del previsto. Segno che i giovani non sono stati particolarmente interessati ad esercitare il loro diritto di voto. Il dato è confermato dal fatto che, secondo le prime analisi, sono stati soprattutto i più giovani a disertare le urne.
Perché? Un complesso di ragioni su cui la classe politica kenyana dovrà interrogarsi. Ma gli aspetti più evidenti riguardano il disamoramento per un esercizio che non solo sembra essere poco credibile ma anche strutturalmente inserito in un sistema in cui la corruzione può comprare quasi tutto, a scapito della volontà popolare e dei bisogni della gente. I giovani percepiscono che questo fardello impedisce di affrontare nodi cruciali per il loro futuro, come l’accesso al mercato del lavoro, oggi inadeguato.
Altro elemento che sembra ormai appurato è il progressivo allontanamento dal voto etnico. Nelle aree urbane e fra i giovani si discute sempre più di modalità comunicative e perfino di programmi o di promesse, e si sceglie di conseguenza. Lo dimostra il voto dei kikuyu, il gruppo etnico maggioritario, che non ha seguito le indicazioni del presidente in carica, Uhuru Kenyatta, riconosciuto loro leader, almeno finora. Ma un altro segnale arriva dall’intreccio delle maggioranze sul territorio nazionale.
Sono novità che potrebbero essere i primi segnali di un’evoluzione verso un modo diverso e più “moderno” di concepire e gestire la vita politica del paese.
Un ultimo aspetto va segnalato. Complessivamente, in questa tornata elettorale i kenyani si sono dimostrati più maturi ed evoluti della loro classe politica, capaci di misurarsi con una realtà in cambiamento.
William Ruto
55 anni, vicepresidente nell’amministrazione uscente di Uhuru Kenyatta, ha ottenuto il 50,5% dei voti alle elezioni del 9 agosto scorso, battendo di stretta misura l’avversario Raila Odinga, al suo quinto tentativo di conquistare la presidenza. Imprenditore nel settore dei polli, Ruto ha alle spalle una lunga carriera politica, essendo entrato in parlamento a 31 anni, sotto la presidenza di Daniel Arap Moi.