Dei circa 9,5 milioni di elettori che si sono registrati per votare in Rwanda, solo poche decine di migliaia non hanno espresso una preferenza per il presidente in carica Paul Kagame alle elezioni che si sono tenute ieri. Il leader rwandese, 66 anni, alla guida dello stato dal 2000 ma in sostanziale controllo del paese dal 1994, ha ottenuto finora il 99,15% delle preferenze stando ai dati della Commissione elettorale nazionale. Finora, perché la percentuale di voti scrutinati è pari a circa l’80% del totale. Impossibile però, numeri alla mano, che il restante 20% di voti da spogliare possa in qualche modo cambiare gli equilibri. Altissimo, come da tradizione, anche il dato relativo all’affluenza, che per adesso si attesta attorno al 98%.
Era tutto previsto e atteso. Kagame aveva ottenuto il 98,8% alle ultime elezioni del 2017. Le prime da un referendum costituzionale che nel 2015, con proporzioni quasi altrettanto plebiscitarie, aveva approvato una serie di modifiche alla Carta fondamentale che il presidente aveva promosso nell’ottica di poter rimanere al potere fino al 2034. Le consultazioni del 2015 avevano infatti concesso la possibilità al capo dello stato di ottenere un altro mandato da sette anni oltre ai due già raggiunti e poi, di guidare altri due potenziali legislature da cinque anni.
«La fiducia che mi avete dato è al di là di ogni spiegazione – ha detto Kagame parlando ai suoi sostenitori dopo la pubblicazione dei risultati provvisori -. Questi numeri così alti – ha aggiunto – non sono solo numeri, anche se stessimo al 100%, ma sono una prova di fiducia ed è questa fiducia la cosa più importante».
L’anniversario del genocidio
A rendere queste elezioni diverse dalle altre però, è quantomeno l’orologio della storia. Quest’anno ricorre infatti il 30esimo anniversario del genocidio del 1994: fra aprile e luglio di quell’anno, esercito e milizie di estremisti della comunità hutu uccisero circa 800mila persone della comunità tutsi nonchè hutu moderati. E il bilancio citato non è fra quelli meno conservativi. A mettere fine ai massacri fu l’ingresso a Kigali del Fronte patriottico rwandese (FPR) di Kagame, che dopo un’offensiva durata mesi riprese il controllo del paese, dando di fatto inizio a un’era che prosegue tuttora.
Tornando al voto, che è valso anche per le legislative, ci verrà perdonato se solo adesso si citano i nomi dei due sfidanti di Kagame, che sono gli stessi del 2017 e che hanno ottenuto più o meno lo stesso successo dell’epoca: a correre per la presidenza sono stati Paul Habineza, del Democratic Green Party, 0,55% delle preferenze, e Philippe Mpayimana, candidato indipendente a cui le urne hanno regalato lo 0,32% del consenso degli elettori.
I politici che hanno preso parte alle elezioni – e che hanno già iniziato a riconoscere la sconfitta, mentre l’annuncio dei risultati definitivi è atteso per il 27 luglio – non dicono tanto del Rwanda di oggi quanto quelli che erano assenti. Tutti i candidati più credibili delle opposizioni sono stati infatti estromessi dalla corsa elettorale dalla giustizia rwandese. Alcuni a causa di presunte irregolarità burocratiche, mentre altri sulla scorta di condanne alla detenzione ricevute in passato, come previsto dall’ordinamento locale nei casi di pene pari o superiori ai sei mesi di reclusione.
La dissidente Ingabire: «Nulla è cambiato»
È quanto successo a Victoire Ingabire, fra le voci dissidenti più note del paese. La ex leader dell’opposizione ha trascorso in carcere otto anni fra il 2010 e il 2018 dopo essere stata condannata a 15 anni di prigione per terrorismo e negazionismo del genocidio del 1994. Sei anni fa, Ingabire ha ottenuto la grazia da Kagame e ora vive nel paese in uno stato di privazione dei propri diritti che le impedisce di visitare la famiglia, che vive all’estero, e di vivere una vita normale. Decine di organizzazioni di attivisti da tutto il mondo hanno di recente chiesto alla comunità internazionale di fare pressione sul governo rwandese affinchè permetta a Ingabire di uscire dal paese, anche alla luce delle delicate condizioni di salute del marito.
Commentando i risultati del voto a Nigrizia, l’attivista e politica è stata lapidaria: rispetto al 2017, ha denunciato, «non è cambiato nulla». Da tenere a mente ci sono pochi punti fissi, secondo Ingabire. «Il fatto che Kagame continui a vincere le elezioni con percentuali che sfiorano il 100% – ha affermato – non va interpretato come un segno di popolarità ma come di totale mancanza di competizione. Se il capo dello stato ha davvero un consenso così grande – si è poi chiesta Ingabire – perché ogni volta deve impedire ai candidati più credibili di partecipare al voto?».
Il prisma della popolarità di Kagame
Le ragioni alla base della popolarità del presidente sono motivo di discussione, sia fra gli attivisti della diaspora che fra gli analisti internazionali. Kagame è accusato di aver chiuso qualsiasi spazio di espressione del dissenso, di controllare i media e di perseguitare gli oppositori politici, tanto entro i confini nazionali quanto all’estero. Numerose infatti, le denunce di rapimenti e uccisioni di dissidenti che vivono in altri paesi, come a esempio in Mozambico, dove si contano diversi casi di sparizioni e morte in circostanze poco chiare di oppositori rwandesi.
Una recente inchiesta di un collettivo internazionale di giornalisti ha poi mostrato come alcune ambasciate all’estero, come quella in Belgio, siano di fatto diventati delle centrali distaccate dell’intelligence incaricate di perseguitare i critici del governo. Nonostante questo, vale la pena menzionare, qualche esponente della diaspora che ha trovato il coraggio di esprimere il suo disaccordo con le politiche di Kigali c’è stato, se è vero che all’estero il capo dello stato ha ottenuto il 95% dei voti, quattro punti percentuali in meno che in patria.
Non mancano però analisti ed esperti che sostengono che il grande consenso ottenuto da Kagame non è solo il frutto della repressione. Il presidente è riuscito in primo luogo a evitare che il paese tornasse a scivolare nella violenza dopo i drammatici eventi del 1994, che sono stati a loro volta l’ultimo atto di decenni di tensioni e violenze fra le due maggiori comunità del paese. Un risultato, questo, ottenuto anche grazie a un costante processo di de-etnicizzazione della società rwandese. Il paese fa inoltre registrare una solida crescita economica, prevista al 7% per il prossimo triennio dalla Banca Mondiale, oltre a essere ritenuto uno dei più sicuri d’Africa e uno di quelli più all’avanguardia in quanto a parità di genere, potendo vantare anche il parlamento con il maggior numero di deputate al mondo. Ben al di sopra della media continentale è anche il grado di accesso ad alcuni servizi di base: il 75% degli abitanti del Rwanda, a esempio, beneficia del collegamento alla rete elettrica nazionale, quando la media della regione è del 51%.
Anche lo scenario economico non è tutto oro che luccica in realtà. Gli aiuti stranieri giocano ancora un ruolo fondamentale nello sviluppo rwandese e il rapporto fra debito e Prodotto interno lordo supera il 70%. Il paese resta inoltre uno dei 25 più poveri del mondo in termini di Pil pro-capite. Detto questo, il Rwanda presenta una stabilità e un livello di benessere comunque superiore a quello che si registra in media nella regione dei Grand Laghi.
Problemi ai confini
Infine, è proprio dal ruolo giocato dal paese in quest’ultimo scenario che potrebbero arrivare alcuni problemi per Kagame. Gli ultimi anni del suo governo sono stati caratterizzati dalle crescenti tensioni con la Repubblica democratica del Congo, che accusa Kigali di finanziare un’offensiva nell’est del paese con l’obiettivo di destabilizzare il suo territorio e di accaparrarsi le tante risorse del suo sottosuolo. Un report delle Nazioni Unite della settimana scorsa in cui si afferma che il Rwanda è presente nella Rd Congo orientale con migliaia di militari ha alimentato nuove tensioni e puntato nuovamente i riflettori su Kigali. Nubi di guerra si sono più volte addensate lungo il confine fra i due paesi negli ultimi due anni. Sollecitata sul tema, in questo caso l’oppositrice Ingabire minimizza: «Kinshasa e Kigali le hanno sparate grosse, ma un’escalation militare è molto poco probabile».