Eritrea: Afwerki prosegue con il suo stillicidio - Nigrizia
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È morto in carcere l'ex ministro Berhane Abraha
Eritrea: Afwerki prosegue con il suo stillicidio
La sua fine riporta alla luce la condizione disumana in cui sono detenuti da decenni decine di giornalisti e figure politiche di rilievo
27 Agosto 2024
Articolo di John White
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Foto di Robert Crow

É stata comunicata dalla famiglia la scorsa settimana la notizia della morte in detenzione del settantanovenne ex ministro delle finanze eritreo Berhane Abraha, che si era azzardato a criticare il presidente-despota dell’Eritrea, Isaias Afwerki. Nel 2012 era stato rimosso dal suo incarico e emarginato dalla politica. Nel 2018 era stato incarcerato per la pubblicazione di un libro, My Country, in cui descriveva il presidente come “dittatore” e sfidandolo poi a un dibattito sulla televisione nazionale. Aveva inoltre chiesto il ripristino dell’Assemblea nazionale – il parlamento eritreo – che era stata sciolta da Isaias nel 2002. Sua moglie, pure veterana dell’indipendenza, era già allora in prigione senza reali motivi. E’ stata rilasciata nel 2019. Nel primo anniversario dell’arresto di Berhane, Seif Magango, allora vicedirettore di Amnesty International per l’Africa orientale, il Corno d’Africa e i Grandi Laghi, aveva esortato il presidente eritreo a rispettare la costituzione tenendo elezioni e promuovendo lo stato di diritto.

Non è chiaro come o quando Berhane sia deceduto, benché già nel 2020 uno dei quattro figli, Efrem, avesse denunciato il grave stato di salute del padre. Fa meraviglia che le autorità, che raramente confermano la morte di alti funzionari in custodia o il luogo della sepoltura, abbiano informato i parenti della morte di Berhane. Solitamente, tuttavia, i veterani della guerra d’indipendenza dell’Eritrea e i membri del servizio nazionale vengono sepolti nel cimitero dei “Patrioti” ad Asmara. Si sa che Berhane non è mai apparso davanti a un tribunale.

Potere incontrastato

Isaias Afwerki, come noto, governa con mano di ferro il paese da dopo l’indipendenza – strappata all’Etiopia nel 1991 dopo tre decenni di conflitto – e senza che si siano mai svolte elezioni nazionali. I partiti politici, le organizzazioni civiche e i media indipendenti sono tutti banditi. Le Nazioni Unite, Amnesty International e ong hanno ripetutamente accusato il governo eritreo di gravi violazioni dei diritti umani, tra cui tortura, sparizioni forzate, servizio militare illimitato e carcerazione di decine di migliaia di persone detenute in condizioni disumane. Da sempre Afwerki elimina gli avversari politici imprigionandoli e ne fa sparire le tracce. E il caso degli ormai noti “G-15” (Gruppo dei 15), un gruppo di 11 funzionari di alto rango ed ex eroi dell’indipendenza, tra ministri e generali anziani, arrestati nel settembre 2011 e di cui non non si sa più nulla da allora.

Da quella fase, in Eritrea, ai prigionieri politici è stato permesso di avere solo qualche raro contatto con il mondo esterno. Ilze Brands-Kehris, segretario generale aggiunto delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha riaffermato anche quest’anno che nel paese l’impunità per la violazione dei diritti umani persiste: «Il nostro ufficio continua a ricevere segnalazioni credibili di torture; detenzioni arbitrarie; condizioni di vita disumane; sparizioni forzate; restrizioni dei diritti alla libertà di espressione, di associazione e di riunione pacifica», ha denunciato Brands-Kehris.

Mahmoud Sheriffo, eroe dell’indipendenza

Compagno di lotta ed esponente di spicco del G15 è stato tra gli altri Mahmoud Ahmed Sheriffo, uno dei combattenti per la libertà più venerati. Era stato ministro degli Affari esteri e vicepresidente dell’Eritrea fino a quando non è stato ripreso all’inizio del 2001 per aver tentato di redigere una legge che puntava a permettere l’organizzazione di elezioni multipartitiche. Sheriffo aveva aderito al Fronte di liberazione popolare eritreo (EPLF) nel 1967. E fra gli autori della lettera aperta che è stata poi il motivo scatenate dell’arresto e la sparizione dei G-15, fra i quali si annoverano anche la moglie di Sheriffo, moglie Aster Fissehatsion, pure riconosciuta come eroina di guerra, e gli ex ministri degli esteri Haile Woldetensae e Petros Solomon. Nella missiva si chiedeva, per l’appunto, che fosse attuata la Costituzione e organizzate le prime elezioni.

Sempre con l’accusa di aver partecipato alla stesura della lettera, quello stesso giorno del 2001 vennero arrestati anche due giornalisti, Dawit Isaak e Seyoum Tsehaye, entrambi editori di Setit, una rivista indipendente. Per la stessa ragione vennero poi portati in detenzione altri otto cronisti e in seguito altri sette. Da allora, inoltre, è stata bandita qualsiasi pubblicazione indipendente. Riguardo ai dissidenti, si presume che almeno nove dei politici e giornalisti in prigione, ora dieci con Berhane Abraha, siano morti in carcere. Un fatto questo, che le autorità eritree si rifiutano di confermare.

Appelli inascoltati
La Commissione africana per i diritti umani, nel novembre 2003, aveva denunciato la detenzione arbitraria e illegale dei 28 dissidenti, chiedendo, senza esito, notizie sulla loro sorte e la loro liberazione. Nel settembre 2021, a vent’anni esatti dal loro arresto, Amnesty International è tornata a chiedere il rilascio incondizionato dei politici e giornalisti arrestati con una nuova campagna, scandita dall’ hashtag #WhereAreEritreasDissidents: «È inconcepibile che questi coraggiosi prigionieri di coscienza languiscano ancora in prigione 20 anni dopo essere stati arrestati per aver esercitato i loro diritti, senza alcuna parola da parte delle autorità sulla loro situazione attuale, e che il divieto di media indipendenti rimanga tuttora in vigore», si leggeva allora in una dichiarazione di Deprose Muchena, direttore regionale di Amnesty International per l’Africa orientale e australe.

E l’appello proseguiva: «I giorni si sono trasformati in mesi, i mesi in anni e ora gli anni si sono trasformati in decenni di angoscia infinita per questi detenuti, le loro famiglie e i loro cari. Chiediamo al presidente Isaias Afewerki di intraprendere passi significativi per porre fine a questa parodia della giustizia». Nell’appello, Muchena concludeva: «Ci sono anche molti altri politici, giornalisti e attivisti che sono stati arrestati e detenuti senza accusa prima del settembre 2001, anche loro devono essere rilasciati».

 

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