Nelle ultime settimane, in coincidenza con festival organizzati per anni da esuli dell’Eritrea in Germania, Svezia e Canada per celebrare i 30 anni dell’indipendenza, si sono verificati scontri e incidenti in alcune città (Giessen, Stoccolma e Toronto).
I disordini, che hanno provocato molti danni materiali, feriti e l’intervento della polizia con l’arresto di decine di persone, hanno visto contrapposti i partecipanti alle commemorazioni e gruppi della diaspora contrari ai festival, che ritengono vetrine di propaganda organizzate dal regime di Asmara che ne approfitta per incamerare introiti.
Purtroppo gli incidenti dimostrano l’amara spaccatura nella diaspora tra i sostenitori del governo e gli esuli che, fuggiti dal paese illegalmente, temono per i loro cari in patria.
In Germania gli oppositori al regime si sono organizzati come Brigata Nhamedu, persone cioè che lottano per porre fine al governo dittatoriale di Isaias Afwerki.
Il quale, dal canto suo, ha definito questi oppositori una «feccia di richiedenti asilo».
In realtà l’opposizione eritrea all’estero si va consolidando e sono migliaia ormai gli aderenti ai gruppi antigovernativi.
Come noto, centinaia di migliaia di persone negli ultimi 30 anni sono fuggite dall’Eritrea, inoltrandosi per lo più nel deserto del Sudan e da lì verso il Nordafrica, nel tentativo di raggiungere l’Europa o il Nord America.
Il governo ritiene traditori coloro che fuggono, e accusa l’Occidente di cercare di indebolire il paese, 5 milioni di abitanti, spopolandolo.
Il presidente Afwerki, 77 anni, governa con pugno di ferro l’Eritrea da quando ottenne l’indipendenza dall’Etiopia dopo tre lunghi decenni di guerriglia.
Il paese è stato spesso descritto come la “Corea del Nord dell’Africa” dato che il regime non ha mai indetto elezioni, la stampa è stata soffocata, i diritti umani violati, gli arresti arbitrari e le detenzioni extragiudiziali all’ordine del giorno e i visti d’uscita rilasciati con il contagocce.
Una nazione in cui migliaia di persone, giovani e meno giovani, vengono forzate a prestare servizio militare a tempo indeterminato, come denunciato molte volte da organizzazioni per i diritti umani ed esperti delle Nazioni Unite.