In un’area fortemente instabile come il Corno d’Africa, l’Eritrea si è posta troppo spesso come elemento catalizzatore e amplificatore di tensioni.
Succede anche in questo periodo, uno dei più complessi e preoccupanti degli ultimi anni per la regione, caratterizzato da un Sudan che rischia di implodere per la guerra civile, da un’Etiopia percorsa da conflitti interni e invischiata in relazioni diplomatiche difficili con i paesi vicini, da una Somalia ancora fragile, che con grande fatica cerca di uscire da una crisi pluridecennale.
Per non dire delle influenze, interferenze e mire esterne che si contendono risorse, ma soprattutto posizioni strategiche da cui controllare l’economia e la stabilità del pianeta, come dimostra la battaglia sul Mar Rosso di queste settimane.
In una situazione oggettivamente delicata, alcune notizie che riguardano l’Eritrea in relazione al Sudan destano inquietudine.
Campi di addestramento
Secondo un articolo pubblicato alla fine di gennaio sul sito di Radio Dabanga, media outlet sudanese di solito molto ben informato, movimenti sudanesi di opposizione armata, operanti sia nell’Est del paese che in Darfur, avrebbero campi di formazione in Eritrea.
L’articolo cita fonti militari e precisa che si tratterebbe di ben sei campi posti nella regione del Gash Barka, confinante con il Sudan orientale. Undici sarebbero i movimenti ospitati sul suolo eritreo, 5 provenienti dal Sudan orientale e 6 dal Darfur.
Si direbbe che lo facciano apertamente, almeno a giudicare dalla foto di commento all’articolo. L’immagine mostra centinaia di uomini in una zona desertica accucciati con in mano armi o bastoni che simulerebbero fucili. Chiaramente si tratta della sessione di un training militare.
La didascalia dice che è stata postata il 14 gennaio sulla pagina Facebook delle Eastern Sudan Liberation Forces (Forze di liberazione del Sudan orientale), un movimento nato in seguito all’occupazione di Wad Madani da parte delle Forze di supporto rapido (RSF) e che annuncerebbe così il suo programma di condurre azioni militari in Sudan.
Tra gli altri, avrebbero campi in Eritrea due gruppi beja, il Beja National Congress e il Beja Armed Congress. I beja sono il più importante e composito gruppo etnico originario del Sudan Orientale. Generalmente si oppongono ai governi centrali da cui non si sentono rappresentati.
Il conflitto a bassa intensità, durato una decina d’anni, contro il regime islamista di Omar El-Bashir aveva il suo coordinamento ad Asmara. Dal confine eritreo passavano aiuti militari al movimento e umanitari alla popolazione. Ad Asmara, nel 2006, vennero firmati anche gli accordi di pace.
Ma i beja cominciarono presto a contestarli, tanto che furono in prima fila nel movimento popolare che portò alla fine del regime del deposto presidente El-Bashir. Entrarono presto in rotta di collisione anche con il governo di transizione di Abdalla Hamdok. Bloccarono per settimane il porto di Port Sudan e la strada per Khartoum, la più importante direttrice del paese, e furono strumentali al colpo di stato militare del 25 ottobre 2021.
Ci furono tensioni anche quando, dopo lo scoppio del conflitto nell’aprile dello scorso anno, il governo fu trasferito a Port Sudan, che da mesi è di fatto la capitale sudanese.
I beja sono, insomma, un gruppo che si sente periferico e marginale rispetto al potere centrale e che non rinuncia alle sue rivendicazioni di centralità nella propria area d’origine. In questo percorso sono spesso divisi e facilmente “arruolabili” da chi ha interesse a destabilizzare il paese.
Negli ultimi anni molti hanno aderito a posizioni di islam radicale, tanto che i leader del regime islamista di El-Bashir, liberati dal carcere all’inizio del conflitto, hanno trovato rifugio e possibilità di reclutamento proprio nel Sudan orientale.
Avrebbero campi in Eritrea anche movimenti darfuriani, tra cui la fazione del Sudan Liberation Movement guidato da Minni Minawi, che è attualmente il governatore del Darfur e che ha recentemente scelto di schierare i suoi uomini a fianco dell’esercito contro le Forze di supporto rapido.
Anche per quanto riguarda il Darfur, ha radici nel conflitto dell’inizio degli anni duemila la storia dell’interesse di Asmara a porsi come facilitatrice di alleanze, mediazioni, rifornimenti militari e altro. Azioni attraverso le quali ritagliarsi un ruolo di peso, seppur surrettizio, nelle relazioni regionali.
Attivisti, giornalisti e analisti politici sudanesi e non considerano i campi militari in Eritrea una minaccia diretta alla stabilità del Sudan orientale, l’unica parte del paese finora colpita dal conflitto in modo solo marginale.
Temono che la militarizzazione dei gruppi di opposizione attraverso i training militari possa preludere a scontri interetnici ancor più frequenti e più seri di quelli che sono scoppiati nella zona negli ultimi anni.
Lo sottolinea, parlando con Radio Dabanga, Khaled Nour, un attivista sudanese, che aggiunge preoccupazioni sull’influenza così acquisita da Asmara che potrebbe usarla come carta da giocare in favore del suo posizionamento regionale invece che in favore della composizione del conflitto in Sudan, come del resto è avvenuto in passato.
Il giornalista Hossameldin Haidar, presidente del National Press Council (Consiglio nazionale della stampa) pensa che i training in Eritrea possano diventare un pericolo per l’intero Sudan, già sull’orlo dell’implosione.
Balletto di alleanze
L’interesse eritreo a dire la propria parola su quanto avviene in Sudan sembrerebbe confermato dalla frequenza con cui Asmara viene visitata dai diversi attori sudanesi, anche se non ha avuto, finora almeno, nessun ruolo “pubblico” e nessun incarico nella ricerca di soluzione della crisi sudanese.
L’ultimo è stato Malik Agar, vicepresidente del consiglio sovrano, il 17 gennaio. Secondo il Sudan Tribune, nell’occasione si è parlato del pericolo per la stabilità regionale, e per quella della stessa Eritrea, nel caso ci fosse un’espansione del territorio controllato dalle Forze di supporto rapido nel Sudan orientale.
Lo stesso Malik aveva incontrato il presidente eritreo anche lo scorso luglio. Allora Isaias Afwerki si era detto contrario sia a mediazioni regionali che internazionali, sottolineando la valenza interna del contrasto tra esercito e RSF.
Anche il presidente del consiglio sovrano, generale Abdel Fattah al-Burhan, ha visto il presidente eritreo ad Asmara lo scorso settembre.
Dallo scoppio del conflitto in Sudan, non c’è stato, invece, nessun incontro con il comandante delle RSF, generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemeti. L’ultimo è avvenuto alla metà di marzo dello scorso anno, quando Hemeti era ancora il vice di al-Burhan nel consiglio sovrano.
Sembra dunque chiara la posizione dell’Eritrea a fianco dell’esercito nazionale e del governo, più o meno legittimo, del paese. Sembra altrettanto chiaro l’intento di giocare un ruolo nel conflitto sudanese al di là e al di fuori dei percorsi diplomatici usuali e impostati a livello regionale e internazionale.
Ѐ probabilmente un modo di tenersi le mani libere per giocare le proprie carte nelle relazioni regionali, e non solo, grazie all’influenza acquisita anche attraverso il supporto a movimenti che, alla bisogna, potrebbero essere facilmente manovrati.
Secondo questa ipotesi, il governo eritreo continuerebbe a giocare nel ruolo di burattinaio che tira i fili della stabilità regionale.