Nel già tormentato Corno d’Africa un’altra crisi potrebbe presto trasformarsi in conflitto aperto. Cresce infatti velocemente la tensione tra Sudan ed Etiopia per la zona contesa di al-Fashaga dove già nei mesi scorsi si sono ripetutamente scontrati l’esercito sudanese e milizie amhara, il secondo gruppo etnico dell’Etiopia, ora tra i maggiori sostenitori del primo ministro Abiy Ahmed nella guerra contro il Tigray.
Al-Fashaga è una vasta zona – estesa tra 251 e 600 chilometri quadrati secondo diverse interpretazioni politico-geografiche – il cui nome, arabo, deriva dall’essere ricca di risorse idriche. Anche i suoi confini meglio riconoscibili sono costituiti da due corsi d’acqua, il fiume Atbara ad est e lo State River a nord. Libero invece da ogni limite geografico è quello con la regione amhara dell’Etiopia.
La zona, che per il governo di Khartoum fa parte dello stato di Gedaref (o El-Gadarif, in arabo), è spesso irraggiungibile dal Sudan durante la stagione delle piogge, quando i numerosi corsi d’acqua stagionali che la percorrono tracimano allagando vaste estensioni, garantendo così la loro eccezionale fertilità. Vi si producono sesamo, mais, cotone, frutta, verdura e vi si raccoglie anche una interessante quantità di gomma arabica.
La sovranità sulla zona è attestata da trattati di epoca coloniale – risalenti al 1902 e al 1907, tra l’impero etiopico e quello britannico – che la assegnano al Sudan. Ma i confini, come in tanti altri casi in Africa, non sono mai stati chiaramente delimitati. Questo ha permesso la permanenza e il successivo stanziamento di popolazione etiopica, attirata dalla fertilità del terreno, che pagava le tasse alle autorità etiopiche che si sono succedute nel tempo, riconoscendone dunque l’autorità e, per estensione, una supposta sovranità sulla regione.
Etiopia e Sudan hanno ripreso la discussione sui loro lunghissimi confini – più di 1.600 chilometri – all’indomani della guerra tra Asmara ed Addis Abeba (1998 – 2000) causata proprio dalla mancata delimitazione dei confini tra i due paesi.
Il negoziato si concluse nel 2008. Per quanto riguarda al-Fashaga, si raggiunse solo un compromesso che riconosceva la sovranità al Sudan ma permetteva la permanenza e lo sfruttamento delle risorse di popolazione etiopica, proveniente dalla regione amhara confinante. Si riconosceva dunque una realtà, caratteristica di molte zone di confine, non solo in Africa.
Questo aveva però conseguenze, come il continuo afflusso di popolazione amhara sostenuta da milizie che, non raramente, durante la stagione del raccolto sconfinava nelle terre dei contadini sudanesi razziandone i prodotti e lasciando qualche vittima sul terreno.
Queste azioni, che provocavano insicurezza e instabilità in tutta la zona, si erano intensificate negli ultimi anni del regime del deposto presidente Omar El-Bashir tanto che il governo di transizione di Khartoum aveva deciso di stanziare un contingente dell’esercito a difesa degli interessi della popolazione sudanese, mentre le autorità dello stato di Gedaref decidevano di chiudere i posti di passaggio.
La situazione era dunque già da tempo problematica, ma è sicuramente precipitata negli ultimi mesi. Nella ricostruzione di Alex de Waal, analista politico dei paesi del Corno d’Africa, in un articolo postato sul sito della BBC lo scorso gennaio, l’aumento delle tensioni in al-Fashaga dipende direttamente dalla crisi etiopica e dal conflitto in Tigray.
La delegazione di Addis Abeba ai negoziati con il Sudan per il confine era guidata, infatti, da Abay Tsehaye, autorevole membro del Tplf (Fronte popolare di liberazione del Tigray) al potere in Etiopia fino alla nomina di Abiy Ahmed alla carica di primo ministro, nell’aprile del 2018, partito di governo nello stato federale del Tigray fino allo scorso novembre, ora definito come movimento terroristico dal governo centrale.
Con l’avvento di Abiy Ahmed, e la graduale esclusione dal potere del Tplf, la leadership amhara aveva cominciato a contestare l’accordo con il Sudan, affermando di non essere stata consultata su un tema che vedeva in gioco l’interesse della sua gente.
Gli amhara avevano rivendicazioni territoriali anche in Tigray e anche per questo – oltre che per rivalità storiche e politiche molto ben radicate nel passato recente e remoto del paese – si sono subito schierati attivamente dalla parte di Addis Abeba contro il Tplf. Man mano che avanzavano nella regione, segnavano la riconquista del territorio rivendicato – e non solo – con bandiere, insediamento di truppe e insegne stradali. Alex de Waal ne cita una, ben dentro il Tigray, che dice “Benvenuti nella regione amhara”.
Secondo la sua analisi, ringalluzzite dalle vittorie, le milizie amhara avrebbero cercato di insediarsi più visibilmente anche in al-Fashaga, senza tener conto che non si trattava di confini interni all’Etiopia ma di confini internazionali, e provocando la ovvia reazione sudanese che ha pian piano ripreso possesso di un territorio in cui di fatto non era ufficialmente e stabilmente presente da decenni.
I due governi continuano ad affermare di voler risolvere la questione in modo pacifico, ma gli scontri sul terreno, iniziati fin dallo scorso dicembre, si sono intensificati con il passar del tempo. Contemporaneamente, sono peggiorate le relazioni tra i due paesi, soprattutto per la gestione delle acque del Nilo in relazione al riempimento dell’enorme bacino formato dalla Gerd, la grande diga per la rinascita etiopica, costruita sul Nilo Blu.
I negoziati, cui partecipa anche l’Egitto e in cui il Cairo e Khartoum hanno stretto una solida alleanza, si sono arenati da tempo, mentre il primo ministro etiopico dichiarava che, con l’inizio della stagione delle piogge, sarebbero ricominciate le operazioni di riempimento del bacino, per il secondo anno consecutivo e in maniera unilaterale.
La scorsa settimana l’esercito sudanese denunciava che quello etiopico aveva ammassato truppe entro i confini di al-Fashaga e informava di continui scontri con varie milizie nella zona. Etiopia e Sudan non sembrano per niente interessate ad aprire un negoziato sulla questione in questo momento, tanto che gli Emirati Arabi Uniti, che si erano offerti come mediatori, hanno dovuto rinunciare all’iniziativa.
Negli stessi giorni Khartoum annunciava l’arrivo di truppe egiziane per manovre militari congiunte che, visto il periodo e l’importanza delle operazioni programmate, possono essere lette solo nel senso di un chiaro ammonimento ad Addis Abeba.
Intanto si sono mobilitate anche le organizzazioni della società civile africana e sudanese che in un appello al consiglio di sicurezza dell’Onu, si dicono preoccupate per il blocco dei negoziati sulla Gerd che potrebbe portare i paesi della regione fino ad un aperto conflitto sul piano politico, legale e perfino militare. Ѐ un’iniziativa da considerare con attenzione anche come indice della debolezza, se non dell’assenza vera e propria, di un lavoro diplomatico indispensabile ad allentare la tensione nella zona.
Sembrerebbe dunque che i tamburi di guerra siano pronti ad essere battuti e che si stia velocemente accorciando il tempo per una soluzione pacifica dei numerosi e interconnessi contenziosi che rendono esplosiva la situazione nella regione.