Si è conclusa a Bahir Dar, città capitale dello stato-regione amhara, in Etiopia, una grande “Conferenza di pace” organizzata dal governo federale e dall’amministrazione del territorio locale. Vi hanno preso parte oltre 600 delegati da ogni parte delle regione, leader religiosi, giovani, donne, funzionari del partito al potere e comandanti delle forze di difesa, per discutere e cercare soluzioni pacifiche al conflitto in atto.
Il governo di Addis Abeba, a inizio maggio, aveva lanciato un processo di dialogo nazionale finalizzato a riportare stabilità nel paese, visti i tanti fronti di conflitto tutt’ora aperti. Un’iniziativa di dialogo che non contemplava assolutamente, secondo quanto dichiarato dal primo ministro Abiy Ahmed, la proposta dei gruppi di opposizione per la nomina di un governo di transizione inclusivo.
Morto sul nascere?
La conferenza per la pace di Bahir Dar, peraltro, era stata preceduta da un incontro ad Addis Abeba per avviare il dialogo a livello nazionale, cui avevano preso parte rappresentanti di 16 partiti politici, tra cui il Partito della Prosperità capeggiato dal premier, che detiene 90% dei seggi parlamentari, membri della società civile e figure etiopiche di spicco. Già in quell’occasione, tuttavia, gran parte degli oppositori aveva rifiutato di partecipare al consesso, definendolo un processo morto sul nascere, perché per nulla inclusivo e controllato dal governo, come dichiarato da Merera Gudina, presidente del Consiglio dei partiti d’opposizione.
Durante la recente conferenza di Bahir Dar, comunque, molti hanno espresso la speranza che si ponga fine quanto prima all’uccisione di persone innocenti, alla distruzione di infrastrutture, alla chiusura di centinaia di scuole per cui milioni di bambini sono rimasti per strada, e che si passi al ripristino di servizi sociali tra cui quelli sanitari di base. I lavori si sono chiusi con la presenza del presidente della Camera della Federazione, Agegnehu Teshager, e l’amministratore capo della regione amhara, Arega Kebede. Una dichiarazione conclusiva in dieci punti, pur non offrendo soluzioni capaci di porre fine al conflitto tra le forze anti-governative Fano e Addis Abeba, ha quanto meno posto le basi per proseguire nel dialogo alla ricerca della pace.
Le conseguenze della guerra
Va ricordato che le milizie Fano, formate in maggioranza di giovani di etnia amhara, avevano combattuto a fianco delle Forze di difesa dell’esercito nazionale (ENDF) in due anni di conflitto contro l’esercito regionale del Tigray (TDF). Dopo la firma della pace tra Makallè e Addis Abeba nel novembre 2022 a Pretoria (Sudafrica), il governo di Abiy Ahmed intendeva incorporare le diverse milizie regionali all’interno dell’esercito federale. Questo proposito ha, scatenato la reazione delle milizie amhara, che si erano rifiutate di unirsi all’esercito interpretando l’operazione come un ennesimo tentativo di limitare l’autonomia regionale.
In ogni caso, benché da parte dei militanti di Fano non si sia ancora registrata alcuna reazione alla conferenza, è stato creato un comitato di 15 membri al fine di facilitare il dialogo tra il governo e le forze del movimento di opposizione. Il documento finale, peraltro, ha sottolineato l’assoluta importanza che vengano compiuti da ambo le parti seri sforzi per tornare a pace e stabilità, e consentire agli abitanti della regione di riprendere le attività per uno sviluppo sostenibile. Nella dichiarazione media, professionisti, docenti, attivisti e membri della diaspora sono invitati a contribuire al processo di pace, i combattenti Fano a deporre le armi e sedersi al tavolo delle trattative e il governo a rimettere in libertà con un’amnistia le migliaia di persone finite in carcere dallo scoppio del conflitto.
Le critiche
Secondo quanto comunicato in anonimato alla BBC da diversi partecipanti, sono serpeggiati durante la conferenza anche chiari sentimenti di malcontento e di irritazione. E non è mancato chi, prima dell’incontro, aveva manifestato la propria contrarietà sostenendo che è una contraddizione in termini parlare di pace in un contesto in cui non solo in Amhara, ma anche in altre aree del paese sono in corso conflitti, violenze e soprusi d’ogni genere. Questi oppositori della conferenza hanno sostenuto che è inimmaginabile che possa aver luogo un dibattito serio, libero e trasparente nel bel mezzo delle ostilità. E hanno concluso che si tratta di un’astuta manovra politica del primo ministro per proporsi come fautore di pace e di dialogo onesto e inclusivo. Un vero dialogo, hanno sostenuto i critici della comunità amhara, potrebbe realizzarsi solo se preceduto dal ritorno degli sfollati alle proprie case; dalla scarcerazione di chi è detenuto arbitrariamente, e dall’espulsione delle forze straniere che occupano ad oggi intere aree del territorio nazionale.
Un fatto certo è che Abiy Ahmed e il suo governo hanno l’urgenza di avviare un processo di pacificazione del paese, visto che l’Etiopia – in seguito ai conflitti di questi ultimi anni – ha pagato un prezzo altissimo sia in vite umane che nel continuo peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Oltre alla guerra e alla violazione dei diritti umani di base che si registra in diverse aree interessate dal conflitto, il paese è colpito in varie regioni da siccità, danni ambientali e crisi alimentare.
Senza considerare che l’Etiopia – al di là delle dichiarazioni governative che prevedono una crescita sostanziale del Pil per il prossimo anno – è più che mai soffocato dall’enorme debito estero di 28 miliardi di dollari, dalla scarsità di valuta estera, dal parallelo declino del valore del birr, la moneta locale, e da un’inflazione così alta da far lievitare i prezzi del cibo e dei cereali a un livello insostenibile per la maggior parte dei 120 milioni di etiopici. La speranza cui si è aggrappato Abiy Ahmed si chiama Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, a cui si è rivolto per ottenere un prestito di 3,5 miliardi di dollari. Fondi che una volta elargiti farebbero aumentare ancor di più l’inflazione.