Etiopia: urne aperte in piena crisi - Nigrizia
Elezioni legislative il 21 giugno
Etiopia: urne aperte in piena crisi
Il paese al voto in un clima di tensione, dovuta ai conflitti ancora in corso nella regione del Tigray e in altre zone del paese. Registrati poco più di 37 milioni di elettori su una popolazione di 109 milioni di abitanti, con il boicottaggio dei principali partiti di opposizione oromo. Una sfida per il primo ministro Abiy Ahmed
19 Giugno 2021
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi, Kenya)
Tempo di lettura 6 minuti
candidati addis abeba
Manifesto con i candidati ad Addis Abeba (Credit: Uisp.org)

Lunedì 21 giugno l’Etiopia voterà per eleggere il parlamento federale e quello degli stati regionali. Sono iscritte alle liste elettorali 37,4 milioni di persone (su un totale di aventi diritto di circa 50 milioni) che potranno scegliere tra gli oltre 40 partiti ammessi alla competizione dalla commissione elettorale, la stragrande maggioranza dei quali regionali o addirittura locali.

Due solo sono le compagini di respiro nazionale: il Partito del progresso (Progress party) del primo ministro Abiy Ahmed, che si prevede avrà la stragrande maggioranza dei voti, e il Partito dei cittadini etiopici per la giustizia sociale (Ethiopian citizens for social justice party) di cui è leader Berhanu Nega, cui fu negata l’elezione a sindaco di Addis Abeba nel 2005. Nega fu tra i fondatori, dall’esilio, del gruppo di opposizione armata Ginbot 7, e rientrò nel paese grazie ai provvedimenti presi da Abiy Ahmed nei suoi primi mesi di governo.

I votanti eleggeranno i parlamenti regionali e i 547 membri del parlamento federale. Il partito che avrà la maggioranza esprimerà il primo ministro. Entro 5 giorni dovranno essere conosciuti i risultati locali. I risultati nazionali validificati e certificati dovranno essere resi pubblici entro 23 giorni dal voto.

Quelle di lunedì sono elezioni lungamente attese. Avrebbero infatti dovuto svolgersi lo scorso agosto ma furono rimandate, ufficialmente come misura per il contenimento della pandemia da Covid-19. Al momento della decisione, erano stati registrati nel paese 25 contagiati su oltre 115 milioni di abitanti.

La maggior parte delle forze di opposizione si adeguò alla decisione del primo ministro e anche diversi esperti la giudicarono come potenzialmente utile al consolidamento della transizione democratica in atto perché avrebbe permesso aperte discussioni su punti critici nella rapida evoluzione del paese e uno svolgimento più libero e credibile delle operazioni di voto stesse.

Avrebbe indubbiamente permesso anche il consolidamento del Partito della prosperità, operativo dal 1° dicembre del 2019, voluto dal primo ministro come evoluzione nazionale del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiopico (Ethiopian people’s revolutionary democratic front – Eprdf), coalizione di formazioni a base etnica che aveva governato il paese dalla caduta del regime del Derg, nel 1991.

Ma la storia è andata ben diversamente. Il Tplf – il partito dei tigrini che aveva di fatto retto la coalizione governativa fino alla nomina di Abiy alla carica di primo ministro e che non aveva aderito al Partito della prosperità – decise di organizzare unilateralmente le elezioni nel Tigray alla data prevista e fu votato dalla stragrande maggioranza degli abitanti della regione. Le elezioni furono considerate illegali dal governo federale.

Fu il primo passo di una crisi che già era nell’aria e che precipitò il 4 novembre con l’intervento dell’esercito federale, allo scopo di riprendere il controllo della regione “ribelle”.

Da allora è stato un susseguirsi di notizie decisamente gravissime: dall’intervento dell’esercito eritreo a fianco di quello di Addis Abeba, agli abusi sulla popolazione civile e sul patrimonio storico del Tigray, all’assassinio di importanti leader politici di etnia tigrina, allo scatenamento di una crisi umanitaria che ha determinato centinaia di migliaia di profughi e che, le organizzazioni umanitarie prevedono, causerà decine di migliaia di morti di fame nei prossimi mesi.

Per di più, la crisi nel Tigray ha fomentato la già preoccupante instabilità in numerose altre parti del paese, in particolare nella regione Oromo, in parti di quella Amhara, in particolare nella zona del Benishangul-Gumuz dove negli ultimi mesi si sono registrate centinaia di vittime. Ha inoltre contribuito ad azzerare il clima di distensione caratterizzato dalla fruizione delle libertà democratiche che i primi provvedimenti di Abiy avevano avviato, in un paese fino ad allora governato in modo autoritario.

Le elezioni di lunedì non potranno perciò essere definite generali e neppure libere e credibili, come promesso dal primo ministro. Si calcola, infatti, che nel 25% del paese le operazioni di voto non potranno svolgersi, per motivi politici o logisitici.

Non si terranno ovviamente nell’intera regione del Tigray per cui una data alternativa non è stata finora decisa. Si svolgeranno probabilmente all’inizio di settembre in altre decine di distretti elettorali in cui la situazione odierna non consente ora l’organizzazione dei seggi.

Ma preoccupa anche, forse soprattutto, il clima politico. Alla competizione elettorale, infatti, non parteciperanno i due maggiori partiti oromo, il Fronte di liberazione oromo (Oromo liberation front – Olf) uno dei più vecchi partiti etiopici, e il Congresso federalista oromo (Oromo federalist congress Ofc), maggioritari nella regione da cui proviene Abiy stesso.

I due partiti, nel comunicare in marzo il ritiro dalla competizione elettorale, avevano denunciato l’incarceramento di alcuni dei loro leader e la chiusura di molti dei loro uffici da parte della polizia. Per di più, l’Olf, insieme al Tplf, sono stati dichiarati formazioni terroristiche dal parlamento federale. Ѐ in carcere dallo scorso luglio, accusato di terrorismo, anche Jawar Mohammed, capo dell’Ofc. Queste accuse impediscono ogni sorta di negoziato utile ad uscire dall’odierna impasse.

Accuse di una pesante repressione vengono anche dai mass media. Il Comitato per la protezione dei giornalisti (Committee to protect journalists – Cpj) ha denunciato azioni intimidatorie nei confronti di parecchi mezzi di comunicazione locali e internazionali, come l’arresto di giornalisti locali e l’espulsione di giornalisti internazionali, come il corrispondente del New York Times, Simon Marks.

Nei giorni scorsi il Cpj ha ritenuto opportuno pubblicare un kit in cui elenca consigli e strumenti utili alla protezione degli operatori dell’informazione durante la copertura delle operazioni elettorali.

La Reuters, invece, informa sul provvedimento preso da Facebook che ha chiuso una rete di falsi account associati a persone in contatto con il Network dell’agenzia per la sicurezza dell’informazione (Information network security agency – Insa), cioè l’ala dei servizi di sicurezza che controlla l’informazione. Gli account, tra le altre azioni, diffondevano notizie false per screditare i candidati dell’opposizione.

Le elezioni, promesse da Abiy Ahmed come le prime veramente libere e credibili del paese, attese come un passo fondamentale nel processo di transizione da lui avviato fin dai primi giorni del suo mandato come primo ministro, si svolgono dunque in un clima pesante, tanto che l’Unione europea ha deciso di ritirare i propri osservatori perché non venivano loro garantiti gli standard minimi necessari per svolgere un lavoro di monitoraggio indipendente e libero.

Il commento alla decisione europea del ministro degli esteri etiopico è significativo dell’attuale modo di gestire le relazioni internazionali del governo di Addis Abeba: la presenza di osservatori europei «non è essenziale e neppure necessaria al fine di certificare la credibilità di un’elezione». Una dichiarazione grave, che assume un peso anche maggiore dal momento che riguarda uno dei più importanti alleati e donatori del paese.

Ed è un ulteriore elemento per dire che le elezioni di lunedì potrebbero aggravare la crisi complessiva del paese invece che segnare una pietra miliare sulla via della transizione disegnata da Abiy Ahmed, come avrebbero dovuto essere.

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