Non solo oro, diamanti o coltan. Una delle materie prime più richieste e commerciate dalla Repubblica democratica del Congo è il legname. Commercio illecito, però. E che si muove soprattutto verso paesi dell’Africa orientale con complicità interne, ai confini e poi nei paesi di arrivo.
Sfruttando i molteplici conflitti interni, il debole tessuto sociale, e l’altrettanto debole governance, la deforestazione distrugge le aree, dà lavoro alle comunità rurali e arricchisce quelli che stanno in cima alla scala.
Un’inchiesta condotta da The Africa Report in collaborazione con il Pulitzer Rainforest Center Rainforest Investigations Network, mette in luce le fasi e i percorsi del contrabbando di legname dalla Rd Congo attraverso il Kenya e l’Uganda.
Negli ultimi due decenni, centinaia di milioni di dollari di legno africano protetto, come il mogano, sono stati saccheggiati e contrabbandati non solo in questi due paesi, ma anche in Rwanda e Tanzania.
Le principali economie della Comunità dell’Africa orientale, dunque, stanno tutte beneficiando di questo traffico violando palesemente i loro impegni ambientali.
Tra l’altro, si legge nel report, il commercio illecito è agevolato da “grandi uomini” vicini ai servizi di sicurezza e ai politici di tutta la regione, che garantiscono il passaggio dei controlli alle frontiere. Mazzette, falsi certificati, una rete elaborata di attori, ognuno esperto nella catena di approvvigionamento e smercio del legname, favoriscono questo traffico.
La rotta kenyana
Il Kenya è il maggiore importatore. Risulta, infatti, che faccia entrare nel paese dieci volte più legname di contrabbando rispetto al vicino Uganda. Il punto principale di passaggio è la cittadina di Lia, sul confine tra Rd Congo e Uganda. Una comunità rurale da tempo ormai trasformatasi in un frenetico centro di scambi, accordi, passaggio della merce. Attività che avvengono sotto gli occhi di tutti.
Secondo l’ONU – riporta l’inchiesta – per almeno 25 anni, gli alti funzionari ugandesi hanno chiuso un occhio sul saccheggio del legno duro proveniente dal bacino del Congo.
Un legname particolarmente richiesto, soprattutto quello del mogano delle Meliaceae che comprende cinque specie di mogano africano (genere Khaya) che si trovano nell’elenco protetto CITES (Convenzione sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatiche minacciate di estinzione). Un tipo di legname che piace particolarmente a clienti di alto profilo e che finisce anche come mobilio in uffici governativi.
La costruzione di una nuova strada ha reso più agevole – dal 2019 – il commercio che prima passava attraverso un altro punto di confine, Mpondwe, situato a circa 450 km a sud di Lia. Poi, nel 2022, sempre a Lia, è stata aperta una grande stazione di legname, portando quindi più denaro, traffico, persone e, ovviamente, la materia prima, come evidenziano immagini satellitari.
I commercianti di legname menzionano diverse province – Nord Kivu, Ituri (nella riserva naturale di Okapi), Tshopo e Haut-Uele – come fonte di approvvigionamento. Circa l’80% del legname che arriva a Lia è diretto in Kenya e i funzionari ugandesi si limitano a facilitarne il movimento.
La via ugandese
L’altra porzione di legname contrabbandato arriva a Kampala. Secondo le testimonianze raccolte nel corso dell’inchiesta, le persone coinvolte nel disboscamento illegale portano a casa il triplo del reddito di quanto, nella Rd Congo, paga il disboscamento legale.
Senza un certificato di origine, il legname non potrebbe essere autorizzato a entrare in Uganda o in qualsiasi territorio dell’Africa orientale ma questa è solo teoria. In pratica dall’atto del disboscamento alla consegna, agli spostamenti vengono assicurati documenti fittizi e ci sono sistemi per eludere i controlli.
In questi ultimi anni, poi, la presenza dei gruppi armati nell’est del paese ha spinto i taglialegna – prima fase del processo – a spostarsi in altre aree, allargando così la superficie forestale di abbattimento degli alberi. Oltretutto i conflitti e la mancanza di sicurezza hanno reso debole lo stato lasciando di fatto il territorio a milizie e predatori di risorse.
E, durante il percorso, basta pagare ai posti di blocco e il passaggio (senza controlli) è assicurato. Il governo dell’Uganda, tra l’altro ha ammesso che il traffico di contrabbando tra i due paesi è enorme. Nel 2022, la Banca centrale ha stimato che il commercio informale valesse 275 milioni di dollari, più della metà di quello formale.
Politica a doppio binario
Per quanto riguarda il coinvolgimento di cosiddetti “big man” l’inchiesta mette per esempio in luce il comportamento contraddittorio di leader come Yoweri Museveni, capo di stato ugandese, che da una parte e a livello ufficiale si dice a favore della protezione dell’ambiente e in particolare del bacino del Congo, dall’altro promuove l’industria locale del mobile che usa legname importato illegalmente.
Assai nota è la produzione di mobili di alta qualità nelle carceri del paese. Mobili spesso acquistati da leader o uffici governativi. Un ordine del valore di circa 50 milioni di dollari è stato consegnato non molto tempo fa solo all’ufficio del presidente.
Stessa contraddizione viene rilevata per il presidente del Kenya, William Ruto, che difende e chiede la protezione dei bacini e delle foreste pluviali del mondo, compresa quella del Congo. «La loro integrità dovrebbe essere, senza dubbio, la massima priorità di tutta l’umanità», ha affermato al vertice dei tre bacini – Amazzonia, Borneo-Mekong-Sud-Est asiatico e Congo – tenutosi a Brazzaville nel 2023.
Nello stesso anno Ruto è stato inserito nella lista dei 100 influenti leader climatici del Times Magazine. Ma una persona intervistata per l’inchiesta ha affermato: in Kenya nel giro di un mese, possono arrivare circa 300 camion di legname e questo non soddisfa ancora la domanda.
Eppure i dati ufficiali riportano che, tra il 2020 e il 2022, circa 132 tonnellate, ovvero quattro camion, sono entrati in Kenya ogni giorno, ovvero meno della metà di quanto testimoniano i commercianti ugandesi al confine. Con buona pace del Green Belt Movement, fondato a suo tempo dall’ambientalista Wangari Maathai, premio Nobel per la pace.