Si chiude oggi il Forum missionario, iniziato lunedì 11 novembre a Montesilvano, in provincia di Pescara. Quattro giorni dedicati a “Cantiere missione. Vivere nel mondo il dono e la cura”. 230 le persone iscritte e arrivate da varie parti d’Italia.
Missionari e missionarie, laici e laiche, sacerdoti e suore, rappresentanti delle varie equipe dei Centri missionari diocesani, della CIMI (Conferenza degli istituti missionari in Italia) e SUAM (Segreteria unitaria di animazione missionaria).
Tante le voci che si sono intervallate in queste giornate, dalla “Cattedra dei poveri” (con dal Brasile, il missionario comboniano Dario Bossi, dall’Uganda suor Rosemary Nyirumbe, dallo Sri Lanka, la missionaria Giovanna Fattori) alle risonanze bibliche della teologa Lidia Maggi.
Dalle tavole rotonde del Riconoscere (con il sacerdote messicano Alejandro Solalinde e la giornalista Paola Caridi; con la missionaria laica Enrica Salsi in Madagascar, il comboniano Filippo Ivardi a Castel Volturno, la coppia fidei donum, Giacomo Crespi e Silvia Caglio per tanti anni in Perù) all’Interpretare con il filosofo dell’Università di Macerata, Roberto Mancini, ed Ezio Falavegna, docente di teologia pastorale alla facoltà teologica del Triveneto.
Due le giornate dedicate alle testimonianze, che sono denuncia di ingiustizia in varie parti del mondo, compresa l’Italia. Perché la missione inizia dal posto in cui si è. Da una Chiesa sinodale che deve saper riconoscersi prossima con corresponsabilità; che deve cambiare modalità, riconoscere innanzitutto le modalità di potere che la abitano, in ogni sua esasperazione, e sostituire queste modalità con declinazioni altre, di cura, di abilità a esser prossima.
Per questo, lo dice padre Dario Bossi, missionario comboniano, «occorre essere capaci di impoverirci e disimparare», di «scendere dalla cattedra», come afferma Giovanna Fattori, per mettersi in ascolto e in azione. Perché poi la missione cambia e ti cambia, come raccontano Giacomo Crespi e Silvia Caglio, partiti come coppia missionaria per Puccallpa e tornati come famiglia.
«Perché spesso in missione il Vangelo è più tangibile che altrove. Lo puoi toccare con mano. E impari, impari che la pioggia può sovvertire i programmi frenetici di una giornata. La pioggia può insegnare a fermarti e restituire valore a un tempo anche di sosta».
Valore, anche a un luogo terra di migrazione diventato «discarica dei popoli», dove è quanto mai necessario essere missione. Come quei ventisette chilometri tra Caserta e Napoli, di cui parla il comboniano Filippo Ivardi. 27 chilometri e 92 stati. «Un territorio dove l’abuso edilizio è di casa dagli anni Sessanta, dove i rifiuti tossici inquinano le terre, le acque, le vite».
Attraverso il collegamento con la giornalista Paola Caridi, al Forum missionario, si parla di Gaza. Di quel sistema di oppressione e occupazione che stanno vivendo Palestina e Cisgiordania, del genocidio che si fa così fatica ad affermare come sterminio sistematico, che punta il dito verso una deresponsabilizzazione di chi non comprende, non denuncia, non si smarca. Si parla di quella terra dove la giornalista vede il sudario, la sindone.
Una responsabilità che riguarda tutte e tutti e che richiede, lo afferma il filosofo Roberto Mancini, «una conversione di vita» intesa come necessità di «uscire dalla cultura del misconoscimento», quella che non riconosce la persona altra, che ha ridotto a estranea; che non riconosce come la guerra «non sia più episodica, ma vero e proprio sistema preparato e istituzionale contro le donne, le persone povere e migranti».
Spettano a don Giuseppe Pizzoli, direttore della Fondazione Missio, le conclusioni dei lavori. Torna sulle parole ascoltate nei quattro giorni, per sottolineare come spesso i missionari e le missionarie si siano sentititi e si sentano «fuori legge», che non vuol dire tanto essere agenti che rompono gli schemi, ma persone che «trasformano le cose dall’interno, in maniera silenziosa, come il lievito nella pasta». Un lievito che parte da ogni casa, da ogni contesto, perché la prossimità parte dal basso.