Nei giorni scorsi si sono intensificati i colloqui per un cessate il fuoco a Gaza con la mediazione di Egitto, Qatar e Stati Uniti. Alla presenza del direttore della Cia William Burns, la delegazione di Hamas, il movimento islamista che governa la Striscia di Gaza, si è recata in Egitto partendo dai suoi uffici in Qatar.
Al centro dei colloqui hanno continuato ad esserci 40 giorni di pausa dalle ostilità, il rilascio di alcuni prigionieri politici palestinesi e il ritorno in Israele di una parte degli ostaggi in mano ad Hamas dopo gli attacchi del 7 ottobre che hanno causato 1.200 morti, innescando il conflitto ancora in corso che sta dilaniando la Striscia di Gaza con oltre 34 mila morti.
I leader di Hamas hanno fatto sapere, dopo aver abbandonato i colloqui il 5 maggio scorso, di essere interessati soltanto a negoziare per la “fine del conflitto”, accettando però la proposta dei mediatori per un cessate il fuoco. Ma le posizioni di Israele e Hamas sembrano ancora inconciliabili. Nonostante ciò, dopo sette mesi, le circostanze generali del conflitto potrebbero finalmente aprire la strada di un difficile dialogo. E a giovarne sarebbe soprattutto l’Egitto.
Un follow-up della tregua di novembre
Se un cessate il fuoco venisse finalmente raggiunto, si tratterebbe di una continuazione della breve tregua dello scorso novembre, quando i numeri dei morti a Gaza iniziavano a salire innescando un’ampia mobilitazione internazionale.
Secondo le autorità egiziane, quello che è cambiato in questa fase rispetto allo scorso autunno è una maggiore propensione da parte israeliana ad accettare il ritorno dei palestinesi, assembrati nelle città del Sud fino al valico di Rafah al confine con l’Egitto, nel Nord di Gaza, evitando procedure e controlli di sicurezza per i cittadini comuni, non militanti in gruppi palestinesi.
Proprio la possibilità per i palestinesi di Gaza di tornare nel Nord della Striscia, insieme al ritiro e al riposizionamento delle forze israeliane, sono stati i punti in cui più si sono concentrate le mediazioni del Qatar e del Cairo.
In particolare, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi aveva tuonato contro ogni possibilità di aprire il valico di Rafah, rimasto quasi sempre chiuso anche per i feriti, per accogliere i palestinesi di Gaza nel Sinai.
Alcuni media internazionali avevano notato però la realizzazione di un’area recintanta a pochi passi dal confine che avrebbe potuto accogliere i rifugiati. Questa eventualità è sempre stata smentita dalle autorità egiziane, nonostante sia andato avanti nelle scorse settimane il business dell’accoglienza che ha permesso ai palestinesi di Gaza più abbienti di fuggire dalla guerra alla volta del Cairo pagando anche oltre 5mila euro per un viaggio di poche centinaia di chilometri.
Non solo, anche la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, approvata lo scorso marzo con l’astensione degli Stati Uniti, che prevede la richiesta del rilascio degli ostaggi e di un cessate il fuoco del conflitto, ha favorito l’accelerazione per il raggiungimento di un accordo dopo sette mesi di conflitto e di stallo diplomatico.
Il Cairo sotto pressione
Non è la prima volta che un’intesa sembra vicina ma poi non si arriva ad un accordo completo per il cessate il fuoco. Lo stesso è avvenuto lo scorso gennaio, quando tutto sembrava pronto per la fine delle ostilità, ma l’uccisione del numero due di Hamas, Saleh al-Arouri, a Beirut ha messo di nuovo in crisi la possibilità di un accordo e a rischio le capacità negoziali egiziane.
Uno scenario che potrebbe ripetersi dopo il lancio di un’offensiva israeliana nell’area meridionale dell’enclave, nonostante l’ok di Hamas per un cessate il fuoco.
Il Cairo è particolarmente sotto pressione per ottenere una conclusione delle ostilità per motivi principalmente economici. La fuga in massa dei turisti diretti nel Sud del Sinai degli ultimi mesi e il calo del traffico marittimo nel Canale di Suez a causa degli attacchi contro le compagnie marittime internazionali da parte dei miliziani yemeniti houthi hanno messo a dura prova un’economia già segnata da inflazione e svalutazione della moneta egiziana, e dalla crisi economica.
E così l’Egitto ha provato a dare una nuova spinta sull’acceleratore del negoziato lo scorso aprile. In quel momento, è stata proprio la concreta possibilità di un’invasione di terra di Rafah, più volte paventata dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, a spingere per la mediazione.
I colloqui in corso al Cairo potrebbero anche essere gli ultimi con una delegazione di Hamas che viene da Doha. Le autorità del Qatar, che hanno subìto la recente messa al bando della tv al-Jazeera da parte israeliana, hanno annunciato la possible chiusura degli uffici di Hamas nel paese, gravemente colpito da assassini mirati, come l’uccisione a Gaza dei tre figli della guida politica del movimento, Ismail Haniyeh.
Non è chiaro se la chiusura degli uffici di Hamas in Qatar comporterebbe anche il ritiro dal paese della delegazione del gruppo incaricata per i negoziati su Gaza al Cairo. Il movimento che governa la Striscia di Gaza è apparso galvanizzato dalla visita di Haniyeh e dalla stretta di mano con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan a Istanbul lo scorso aprile.
La Turchia ha anche proceduto a rivedere i rapporti commerciali bilaterali con Israele dopo mesi di annunci e dopo le dure critiche mosse a Tel Aviv per il massacro in corso a Gaza, da parte del presidente turco. E avviato un percorso di riavvicinamento con il Cairo.
Egitto e Israele: partner strategici
Dopo il golpe del 2013 al Cairo, l’Egitto di al-Sisi è apparso sempre più vicino alle autorità israeliane. Per esempio, per favorire gli interessi israeliani, tra il 2013 e il 2020 l’esercito egiziano ha distrutto oltre 12 mila case, soprattutto nell’area di al-Arish, e ha espropriato almeno 6 mila ettari di terreno, producendo circa 100 mila sfollati interni, per la costruzione di due zone cuscinetto ad al-Arish e al valico di Rafah con Gaza.
Non solo, le continue scoperte di gas nel Mediterraneo orientale hanno contribuito non poco al dialogo tra i due paesi. Nel gennaio 2020, Israele ha iniziato a esportare il suo gas in Egitto come parte di un accordo più generale che include la consegna, attraverso pipeline esistenti, di 85 miliardi di metri cubi di gas in 15 anni, per un valore totale stimato di 19 miliardi di dollari.
E così, se l’Egitto avrebbe tutte le carte in regola per favorire il dialogo tra israeliani e palestinesi, già nel 2014, al tempo dell’operazione ‘Margine protettivo contro Gaza’, si era mostrato sbilanciato in favore di Israele.
Unione Europea e Lega Araba fecero riferimento per giorni ad una bozza egiziana di cessate il fuoco come unica possibile soluzione ai continui bombardamenti dell’esercito israeliano, producendo un’imponente figuraccia diplomatica del Cairo.
Proteste pro-palestinesi al Cairo
Non solo, negli ultimi anni in Egitto è montato un crescente sentimento anti-Hamas. Questo si può spiegare con gli iniziali legami tra il movimento palestinese e i Fratelli Musulmani, ma individua anche una più diffusa e profonda discriminazione che coinvolge palestinesi e siriani in Egitto.
Questo ha reso significativi i passi che nell’anno al potere ha fatto l’ex presidente egiziano Mohammed Morsi (2012-2013). La mediazione di Morsi, durante l’operazione ‘Pilastro di difesa’ (2012) è apparta meno appiattita sulle posizioni israeliane, rispetto a quella di questi mesi assunta da al-Sisi, e favorevole al dialogo tra Fatah e Hamas.
Nonostante questo la società civile egiziana si è dimostrata estremamente sensibile ai crimini commessi a Gaza mobilitandosi, come mai dal 2013 a oggi, in favore dei palestinesi. Queste manifestazioni sono state ampiamente manipolate dai sostenitori del presidente al-Sisi in funzione elettorale, favorendo la sua terza riconferma lo scorso dicembre, con una partecipazione più alta al voto rispetto alle tornate precedenti.
Eppure la repressione non accenna a fermarsi. E così continuano gli arresti di manifestanti che ogni venerdì protestano per chiedere il cessate il fuoco a Gaza. A pagarne le spese lo scorso 24 aprile sono stati noti attivisti della sinistra egiziana, tra cui Mahiennour el-Masri, arrestata e poi rilasciata dopo la manifestazione a sostegno delle donne sudanesi e di Gaza alle porte degli uffici delle Nazioni Unite al Cairo. Tra gli arrestati, poi rilasciati, c’erano anche i due cittadini italo-egiziani, Mohamed Farag e Lina Aly.
L’aggravarsi della repressione dei diritti è confermata dal report dal titolo Complicità strategica: il partenariato strategico Ue-Egitto rischia di rafforzare l’autoritarismo a scapito dei diritti umani del think tank EgyptWide for Human Rights. Nonostante questo, lo scorso 8 marzo, la premier italiana Giorgia Meloni e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, tra gli altri, hanno firmato accordi economici, in materia di energia e migrazioni per il valore di 7,4 miliardi di euro con il Cairo.
Egitto, Qatar e Stati Uniti sono impegnati in un tour de force significativo ma in salita per ottenere un cessate il fuoco a Gaza dopo lo scoppio del conflitto lo scorso 7 ottobre. In particolare, il Cairo ha tutti gli interessi economici e geopolitici, nonoché una significativa richiesta da parte dell’opinione pubblica egiziana, per favorire il raggiungimento di un accordo che potrebbe normalizzare la situazione a Rafah, al confine tra i due paesi.
Eppure la strada del cessate il fuoco permanente appare ancora piena di incognite mentre la fine del conflitto aprirebbe una stagione di rivalutazione più generale dei rapporti di forza regionali e sul futuro di Hamas che, già marginalizzato dal Cairo, guarda sempre più verso Turchia e Iran per la ricostruzione di Gaza.