Si può anche non essere d’accordo su quanto sostiene Gad Lerner nel suo ultimo libro su Gaza. Al giornalista italiano nato a Beirut però, già volto e firma storica delle maggiori emittenti e delle più importanti testate italiane, collaboratore fisso di Nigrizia da anni, va riconosciuto un merito: la caparbietà nell’andare oltre le risposte facili, che placano le inquietudini di almeno una delle parti in causa. E poi la tenacia nello svelare le contraddizioni e l’impegno nel portare alla luce le alternative di pensiero che hanno decostruito il senso stesso di un conflitto che prosegue da 75 anni, mostrando che l’orizzonte della fratellanza, in realtà, è sempre stato possibile se solo fosse stato voluto.
Utile fugare ogni dubbio, però. L’obiettività di Lerner non vuole fare del cronista una “spalla ebraica” su cui il lettore italiano “filo-palestinese” può trovare confronto. L’autore non crede che il conflitto in Medioriente possa essere letto da una prospettiva coloniale, così come viene sostenuto da diversi storici e attivisti che si ritengono più vicini alla causa palestinese. Di Hamas e delle oltre 37mila persone che sono state uccise a Gaza da quel giorno in poi per mano dell’esercito israeliano dice in un passaggio che «quella che a noi pare una catastrofe» è per il partito-milizia «una crisi necessaria, la purificazione che renderà i palestinesi degni di ricevere, quando Dio vorrà, la ricompensa che spetta ai devoti».
Le analisi che stanno al cuore del libro di Lerner sono rivolte verso l’interno però. Nonostante il forte legame affettivo e la grande solidarietà che uniscono l’autore a Israele, è quest’ultimo l’oggetto delle sue critiche più ferme e delle sue osservazioni più dure. In modo particolare l’attuale governo del premier Nethanyau, arrivato a includere al suo interno ferventi epigoni del rabbino estremista Kahane che già nel 1984 faceva inorridire Primo Levi.
Da un’intervista di diversi anni fa con il grande scrittore, morto nel 1987, passa una delle riflessioni più interessanti proposte da Lerner in merito alla profonda crisi che attraversa da anni la società israeliana. Nel corso del colloquio con il giornalista, l’autore di “Se questo un uomo” ragiona sul «baricentro dell’ebraismo» e sulla necessità che questo torni a stabilirsi nella diaspora «dispersa e policentrica» e casa del «filone ebraico della tolleranza», invece che al chiuso dei confini di Israele.
Questo contrasto torna in Lerner nel dualismo fra l’«esclusivismo» identitario che a oggi domina nel paese e l’«universalismo» spirituale e intellettuale che da sempre segna il contribuito ebraico alla cultura di tutto il mondo. Ed è con la sofferenza di chi ama ma non può fare a meno di vedere, che l’autore si augura che a prevalere sia alla fine il secondo.