L’11 aprile 2011 è iniziato l’incubo di Laurent Gbagbo. Il 31 marzo 2021, il giorno della sua fine.
Dieci anni. Iniziati con il suo arresto nel palazzo presidenziale di Abidjan, capitale economica della Costa d’Avorio e con la sua successiva consegna alla Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aia.
La cui camera penale di secondo grado ha confermato a fine marzo scorso che non c’erano prove documentali per condannare l’ex presidente ivoriano e il suo ministro della gioventù e del lavoro Charles Blé Goudé per crimini contro l’umanità. Non sono stati loro i “mandanti” dell’eccidio scoppiato in seguito al voto contestato del 28 novembre 2010.
Notizia accolta con entusiasmo dai sostenitori di Gbagbo in patria. E pare che il grande nemico Ouattara sia ora pronto ad accogliere il ritorno dei due ex imputati, in nome della riconciliazione nazionale, nonostante Gbagbo debba scontare una pena a 20 anni per una sentenza emessa nel suo paese, nel gennaio del 2018, per il caso della cosiddetta “rapina” all’Agenzia nazionale ivoriana della Banca centrale degli stati dell’Africa occidentale (BCEAO).
Si racconta che ad Abidjan un tunnel sotterraneo colleghi la residenza presidenziale con l’appartamento dell’ambasciatore di Francia. Parigi, in occasione dell’indipendenza del paese africano (1960), si era impegnata a garantire l’incolumità dei presidenti della repubblica della sua ex colonia.
Si racconta che Laurent Gbagbo, che ha occupato quella residenza presidenziale dall’ottobre del 2000 all’aprile del 2011, durante i tragici giorni d’inizio 2011 abbia fatto interrompere con un muro la comunicazione sotterranea, perché non si considerava più protetto, ma minacciato dalla Francia. Attribuiva all’Eliseo varie macchinazioni a suoi danni, la principale delle quali era il sostegno e il riconoscimento ufficiale del suo rivale, Alassane Ouattara, come presidente della repubblica, dopo gli esiti contestati dei risultati del ballottaggio elettorale del 28 novembre 2010.
Si racconta anche che i militari francesi abbiano minato il muro che ostruiva il passaggio tra la residenza e l’ambasciata, permettendo così alle forze di Ouattara di catturare vivo Gbagbo, come aveva esplicitamente richiesto il presidente eletto, in accordo con Sarkozy, allora all’Eliseo.
È certo, invece, che i militari di Ouattara, l’11 aprile, hanno prelevato Gbagbo, sua moglie Simone e i loro familiari e fedelissimi dalla residenza presidenziale per portarli al vicino Hôtel du Golf. Era il quartier generale di Ouattara dal 2 dicembre del 2010, quando la Commissione elettorale indipendente lo aveva dichiarato vincitore delle elezioni presidenziali, chiudendo un’anomalia istituzionale, seguita agli esiti del ballottaggio elettorale che aveva visto due presidenti della repubblica e due governi contendersi il paese.
Una contesa che aveva scatenato una guerra civile, con oltre 3mila morti ufficiali e saccheggi sistematici in varie aree del paese.
L’allora mediatore in Costa d’Avorio, Thabo Mbeki, ex presidente sudafricano, disse che non c’erano neppure le condizioni minime per tenere elezioni nel paese, perché i ribelli del nord (che sostenevano Ouattara) non avevano disarmato come era nei patti. E da 8 anni, di fatto, il paese era spaccato in due: il nord contro il resto della Costa d’Avorio.
Una volta portati all’Aia, Gbagbo e Charles Blé Goudé sono rimasti agli arresti nel centro di detenzione di Scheveningen, in Olanda, fino al 15 gennaio 2019, quando la Cpi ha proclamato la loro assoluzione in primo grado.
A presiedere quel collegio c’era un magistrato italiano, Cuno Tarfusser, 66 anni, dal 2009 al 2019 uno dei 18 giudici della Corte penale internazionale. È stato lui stesso a scrivere il dispositivo di assoluzione dei due esponenti ivoriani, depositato il 16 luglio del 2019. E oggi il magistrato bolzanino si dichiara per nulla sorpreso dalla sentenza di conferma arrivata dalla camera penale di secondo grado dell’Aia.
«Beh, conoscendo gli atti non potevo immaginare un esito diverso. Ovviamente, i fatti gravi inquadrati nell’ambito dei crimini contro l’umanità sono certamente accaduti e anche provati. Su questo non c’è dubbio. Il problema era vedere se questi crimini sono riferibili ai due imputati. Ecco, sotto questo profilo le prove semplicemente non c’erano».
Un impianto accusatorio fallace, quindi?
«Mi ripeto. Nessuno mette in discussione che i fatti siano avvenuti. Tra l’altro sono accaduti in maniera reciproca tra le due fazioni politiche, quella che sosteneva Gbagbo – da un lato – e quella che sosteneva l’attuale presidente Ouattara, dall’altra. Non erano crimini unilaterali, ma commessi nell’ambito di un conflitto in cui hanno preso parte tutte e due le componenti politiche. Quindi, nessun dubbio che siano successi e che siano stati di una inaudita gravità. Il problema è che poi io devo, sotto il profilo della responsabilità penale che è personale, riferire queste responsabilità agli imputati. Ecco, sotto questo profilo ho sostenuto – e ora anche la camera d’appello l’ha confermato – che non c’erano prove. Punto».
Lei parlò di una “debolezza eccezionale” del fascicolo della pubblica accusa.
«Debolezza eccezionale delle prove. Non posso inventarmi delle cose che non ci sono agli atti. Il materiale probatorio raccolto e portato a processo dalla pubblica accusa era a dir poco scarso».
Sappiamo che ha giocato un ruolo importante Parigi nell’arresto di Gbagbo. Pare che siano state le stesse forze speciali francesi a prelevarlo l’11 aprile 2011 dal suo palazzo presidenziale per poi portarlo direttamente all’Aia. Il suo arresto si può leggere, secondo lei, come un’operazione politica?
«Ciò che mi chiede non ha nulla a che vedere col processo e con la valutazione delle prove. Ma credo che sia difficilmente smentibile il fatto che dietro l’arresto di Gbagbo ci fossero dei grossi interessi, anche politici. E questi interessi erano personificati dalla Francia, di cui la Costa d’Avorio era stata una colonia e su cui Parigi esercitava un dominio politico e militare».
Quindi possiamo dire che le due assoluzioni rappresentino uno smacco per Parigi?
«Non so se sia stato uno smacco. Io con certezza posso dire che non sono state portate le prove per condannare i due imputati. Poi se uno la vede sotto l’aspetto politico, sono altre le considerazioni. Ovviamente ho una mia opinione abbastanza precisa sul punto. Ma da giudice della Corte mi limito a valutare il materiale che mi viene sottoposto. Quello che ho imparato in questo processo è che la politica che voleva perorare Gbagbo era un graduale affrancamento da Parigi. Mentre Ouattara, che era un amico dell’allora presidente francese (Sarkozy ndr), voleva preservare lo status quo. Ecco, questo credo che si possa dire con assoluta tranquillità».
Nei suoi 10 anni alla Corte penale ha mai trovato un processo istruito così male?
«Il problema è che in ambito processuale, più in alto si va a cercare i responsabili di un fatto più diventa difficile individuare chi ha ucciso una persona rispetto al mandante o alla cupola che ha ordinato l’omicidio. È chiaro che nel momento in cui io incrimino un presidente della repubblica, è più difficile trovare le prove che fosse lui la persona che ha ordinato il crimine concreto. È un tipo di processo complicato. Ma proprio perché è complicato, credo che la professionalità dei soggetti che fanno gli investigatori, i procuratori e i giudici deve essere altissima. E quello che io lamento è che anche alla Cpi ci sono delle lacune, chiamiamole così».
A 360 gradi? O in modo particolare in campo accusatorio? Ricordo che la procuratrice di questa processo è la gambiana Fatou Bensouda?
«Un po’ ovunque. Ma il cuore del procedimento è la Procura, ed è lì dove si vedono di più le falle rispetto ad altri settori della Corte».
Questi 10 anni alla Cpi sono stati un’esperienza positiva? Quali limiti ha intravisto?
«Faccio due valutazioni. La mia esperienza personale è stata straordinaria. Ho avuto la possibilità di vivere e di vedere delle cose che la stragrande maggioranza delle persone non potrà mai né vivere né vedere. A livello personale ne sono uscito molto arricchito. L’altro aspetto, invece, è un po’ diverso. Credo che l’idea di una Cpi sia fantastica. Il problema è che la messa in pratica di questa idea lascia abbastanza a desiderare».