Il prossimo 9 aprile a Gibuti si andrà a votare. Si rinnoverà il parlamento e si eleggerà il presidente. In questi giorni è in pieno fervore la campagna elettorale.
Il presidente uscente, Ismaïl Omar Guelleh, l’ha di fatto aperta lo scorso dicembre, durante una riunione dell’Igad – l’organizzazione regionale per lo sviluppo, basata proprio a Gibuti – comunicando la sua intenzione di «continuare a lavorare per realizzare le aspirazioni dei giovani (del paese) ad un futuro migliore».
Ismaïl Omar Guelleh, 73 anni, in carica fin dalla prima elezione multipartitica, nel 1999, si presenta per un quinto mandato. L’unico concorrente, l’uomo d’affari Zakaria Ismael Jafar, esponente del Movimento per lo sviluppo e l’equilibrio della nazione di Gibuti (Movement for the development and balance of the djiboutian nation – Mdend), non sembra avere nessuna reale possibilità di contrastarne la rielezione.
Gli altri partiti boicottano la tornata elettorale, accusando Guelleh di mirare alla presidenza a vita, e non senza ragione. Guelleh è il secondo presidente dall’indipendenza, ottenuta dalla Francia nel giugno del 1977. Ѐ succeduto allo zio, Hassan Gouled Aptidon, uno dei leader della lotta anticoloniale. E dunque la gestione del potere è sempre stata saldamente nelle mani della stessa famiglia, la sua.
Lo spazio di confronto politico nel paese è generalmente minimo, ma si restringe ulteriormente in vista delle elezioni. Durante la campagna elettorale del 2016 si sono contate almeno 27 vittime per gli interventi degli apparati di sicurezza contro le manifestazioni dell’opposizione. Il clima di questi giorni è dunque piuttosto pesante ma rischia di diventare incandescente per le minacce del gruppo terroristico somalo al-Shabaab.
Con un file audio diffuso attraverso i propri canali, il loro leader, Ahmed Omar Diriye (conosciuto anche come Abu Ubaidah), elencato dal Dipartimento di stato americano come uno dei più pericolosi terroristi internazionali, ha chiamato all’azione proprio i giovani di Gibuti, la cui popolazione è in maggioranza somala, e che dunque potrebbe essere permeabile a questo genere di richiami.
Ha chiesto loro, in particolare, di liberare il paese dalle basi straniere, nominando quelle americana e francese, «da cui vengono programmate tutte le azioni militari contro i musulmani dell’Africa orientale». E ha proseguito tuonando: «Fate degli interessi americani e francesi a Gibuti la massima priorità dei vostri obiettivi».
Grazie alla sua posizione geografica, che gli dà il controllo dello stretto del Bab el Mandeb, tra il Golfo di Aden che si apre sull’Oceano Indiano, e il Mar Rosso che conduce al canale di Suez, Gibuti ha un’importanza strategica enorme. Dallo stretto passano il 40% del petrolio estratto annualmente e buona parte dei traffici commerciali tra l’Europa, l’Africa orientale e l’Asia meridionale. Per di più, costituisce una postazione privilegiata nel cuore della regione, a cavallo tra il Medio Oriente e l’Africa orientale, da diversi decenni la più tormentata del pianeta.
Esplosiva poi, negli ultimi anni, per i diversi tentativi di espansione islamista dell’Isis e per il conflitto yemenita in cui si confrontato, e si scontrano, le varie anime dell’islam politico. Non sorprende, dunque, la vera e propria corsa ad acquisirvi quote di influenza attraverso la presenza di basi militari e di investimenti in settori strategici, come i porti e le vie di comunicazione verso l’interno del continente africano.
Gibuti è probabilmente il paese con la più alta concentrazione di basi militari straniere al mondo. Oltre agli Stati Uniti e alla Francia, vi hanno una presenza militare anche la Cina, il Giappone e alcuni paesi europei tra cui l’Italia. Ma certamente la presenza più pesante è quella americana e cinese. Gli Stati Uniti si sono concentrati nel settore militare, subentrando alla Francia, l’ex potenza coloniale, nella loro stessa storica base di Camp Lemmonier, dove hanno un contingente di almeno 4mila uomini.
Da questa base operativa, la più grande e l’unica stabile in Africa, sono in grado di condurre operazioni militari e antiterrorismo in Medio oriente e nei paesi dell’Africa orientale. In particolare, vi coordinano le operazioni in Somalia contro il gruppo terroristico al-Shabaab. Da Gibuti partono i droni che regolarmente bombardano le basi di al-Shabaab in Somalia, facendo spesso anche numerose vittime civili.
Anche la Cina ha a Gibuti un’importante base militare, la prima in assoluto fuori dal territorio del paese. Non sono mancate frizioni con gli americani che si sono intensificate durante la presidenza Trump. Ma, almeno per ora, la presenza militare cinese sembra diretta soprattutto a proteggere gli enormi investimenti nel paese e nella regione.
Sono stati realizzati con fondi cinesi il porto di Doraleh, alla periferia di Gibuti, il più moderno dell’Africa orientale e tra i più importanti del continente, dove si trovano terminal per container e petrolio, banchine per i più moderni e giganteschi cargo, magazzini in grado di stoccare enormi quantità di merci in attesa di essere trasportate nei paesi della regione.
Doraleh è anche, e soprattutto, lo sbocco militare e commerciale dell’Etiopia che, nonostante il conflitto scoppiato negli ultimi mesi in Tigray, rimane l’economia in più veloce espansione della regione. Sono in gran parte cinesi anche gli investimenti per la ferrovia che congiunge Gibuti ad Addis Abeba, per un acquedotto che parte dall’Etiopia e rifornisce d’acqua Gibuti, e per le infrastrutture nel golfo di Tadjourah, nel nord del paese – un porto e una strada camionabile – che pure facilitano i commerci dell’Etiopia, e in particolare della regione Afar e del Tigray.
Ma soprattutto Gibuti è stata individuata come un nodo di primaria importanza per il progetto cinese conosciuto come “la nuova via della seta”. Vi è inoltre prevista la più grande zona di libero scambio africana, la cui prima fase è già stata inaugurata nel 2018.
Secondo tutte le fonti indipendenti, il controllo di Guelleh è strettissimo anche nel settore economico. Anzi, è così pervasivo da controllare l’economia stessa del paese, orientandone, anche attraverso una rampante corruzione, tutti gli investimenti stranieri. Attraverso i vari rami della sua famiglia, domina in particolare nei settori delle costruzioni, della logistica, delle telecomunicazioni e del turismo.
Di questi investimenti però, ben poco arriva alla popolazione, che non arriva al milione di abitanti e vive in maggioranza sotto la soglia di povertà. Il malcontento è dunque diffuso, soprattutto ora che il paese risente della diminuzione dei commerci a causa della pandemia.
Secondo stime riportate dal sito Crisis 24, specializzato in analisi di rischio basate su informazioni di intelligence, Gibuti dovrebbe aver registrato una diminuzione del Pil pari al 6,5% nel 2020. In particolare ne avrebbe risentito il gettito fiscale, basato in gran parte sulle attività portuali.
Il richiamo alla jihad del leader di al-Shabaab cade dunque durante una crisi economica destinata ad aggravare le già gravi condizioni degli strati più deboli della popolazione e potrebbe dunque avere un certo ascolto. Interessante è però notare che l’appello si rivolge a «lupi solitari» pronti a «portare avanti … operazioni suicide individuali». Segno che il gruppo terrorisitco non ha per ora nessuna base nel paese, tanto che invita i giovani interessati a passare il confine per riceve addestramento presso quelle somale.
E probabilmente di questa difficoltà di penetrazione del gruppo, il paese deve ringraziare proprio la presenza delle basi militari straniere, dotate di tutti i mezzi necessari per garantire la propria sicurezza, che dipende in gran parte da quella del territorio in cui si trovano.
Tuttavia la minaccia è presa molto seriamente. Il portavoce del comando militare americano in Africa (Africom) ha dichiarato a Voice of America, la più autorevole emittente americana all’estero, che al-Shabaab rimane una minaccia per gli interessi americani nella regione e dunque prende molto seriamente la recente chiamata al martirio del loro leader.