La ricorrenza ha origine nel 2003, quando un attacco suicida presso l’ufficio delle Nazioni Unite di Baghdad causa la morte di 22 persone. Oggi, a vent’anni di distanza, le sfide per gli operatori umanitari sono cresciute, e con loro i rischi, con un numero di persone raggiunte aumentato di 10 volte.
Per questo, il 19 agosto è l’occasione non solo per fare memoria, ma per porre l’attenzione su chi tuttora svolge uno dei lavori più pericolosi del mondo: quello dell’operatore umanitario.
Lo slogan della giornata di quest’anno è #NoMatterWhat: non importa dove, per chi, con quali rischi, il lavoro al servizio delle comunità in difficoltà non si ferma.
Ciò che si può fare è capire come migliorare la tutela di chi si espone a questi rischi.
Solo nel 2022, gli operatori rimasti uccisi sono 116, 185 i rapimenti e 143 i feriti.
Sono numeri alti, anche a fronte di un anno in cui la necessità di aiuti umanitari ha raggiunto i massimi storici.
Si segnala tuttavia un miglioramento, se confrontati questi dati con quelli dei tre anni precedenti, la cui media è leggermente più alta, fatta eccezione dei rapimenti.
Il 2023, per ora, segnala un curva ancora discendente, con 62 uccisioni, 34 rapimenti e 89 feriti.
Il continente più pericoloso e senza eguali è, e rimane, l’Africa, in particolare tutta l’area del Sahel e del Corno.
Sud Sudan, con 40 attacchi solo nell’ultimo anno, e Sudan 19, sono i paesi dove gli operatori umanitari corrono i rischi maggiori.
In Sudan, in particolare, ha raggiunto il numero più alto dal conflitto in Darfur tra il 2006 e il 2009.
Seguono Repubblica Centrafricana, Mali e Somalia per il numero di morti.
Dopo di loro, si collocano l’Ucraina e lo Yemen.
Il capo umanitario delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, ha ricordato come la stragrande maggioranza di persone che svolge questo lavoro e che perde la vita è rappresentata dagli operatori locali. (AB)