In ritardo, ma non tardi, sta prendendo piede un interesse non episodico intorno al colonialismo italiano in Africa: Eritrea, Etiopia, Libia, Somalia. Segmenti sempre più ampi di opinione pubblica – sollecitati dalla produzione di lavori degli storici e degli specialisti che innescano interventi dei media e convegni – sono indotti a riflettere sul fatto che l’argomento colonialismo non è mai stato oggetto di un dibattito nazionale né tantomeno di una revisione critica.
Un pezzo di storia italiana, dal 1869 al 1943, è stato a lungo rimosso e ora sta pian piano tornando a farsi sentire nella coscienza degli italiani, come direbbe lo storico e giornalista Angelo Del Boca che ha analizzato quel periodo e smascherato memorie parziali e distorte. Un contributo in questa direzione lo sta dando l’ultimo libro di Antonio M. Morone, professore associato in Storia contemporanea dell’Africa al dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Pavia.
Consultando fonti d’archivio e attraverso interviste realizzate ad ascari – i sudditi soldati ampiamente utilizzati nelle guerre coloniali – sia in Africa che in Italia, l’autore mette a fuoco il progetto coloniale dell’Italia repubblicana in continuità con l’Italia liberale e poi fascista, e si sofferma in particolare sul ruolo di intermediazione che vi hanno svolto gli ascari. Spiega che l’Italia uscita sconfitta dalla guerra, pur avendo sottoscritto il Trattato di Parigi del 1947 che stabiliva la rinuncia dei possedimenti d’Oltremare, ha continuato a operare per rientrare in possesso delle colonie.
E nemmeno la bocciatura da parte dell’Onu nel 1949 del «compromesso Bevin-Sforza» che prevedeva una spartizione delle colonia tra Italia e Gran Bretagna scoraggiò il ministero dell’Africa italiana dal condurre operazioni sotterranee per raggiungere l’obiettivo. E in questo contesto si inseriscono gli ascari: affidabili per l’Italia perché a lungo al servizio dell’amministrazione italiana; desiderosi, in quanto intermediari, di acquisire posizioni di potere una volta ristabilito l’ordine coloniale.
In questa loro funzione entrarono in contrasto con i movimenti nazionalisti che agivano per l’indipendenza dei loro paesi. Sottolinea Morone: «Occorre considerare come la decolonizzazione non fu semplicemente un processo dettato dallo scontro tra colonizzatori e nazionalisti, ma assunse spesso le forme di una competizione tutta tra africani». E ancora: «Gli ascari non si limitarono a corrispondere i disegni politici italiani per un ritorno in Africa ma, in più di un caso, li interpretarono in un modo autonomo e originale, rivendicando una riforma dell’ordine coloniale che potesse assicurare loro maggiori diritti, più ampi spazi di partecipazione e ulteriori privilegi nella società tardo coloniale».
La storia prese un’altra piega. Ma da queste pagine si evince chiaramente che l’Italia repubblicana rivendicò la bontà del colonialismo e che trattò gli ascari – pur fieri della loro italianità – con lo stesso razzismo palesato dai governi liberali e dal fascismo: razzismo delle istituzioni repubblicane, dei dirigenti politici, degli uffi iali italiani e anche della gente comune.
Alcuni numeri. Giorgio Rochat ha calcolato che circa il 40% dei militari impegnati nella seconda guerra italo-etiopica (1935-36) erano truppe coloniali: 140mila eritrei, 30mila somali e 8mila libici. Dopo l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, gli ascari dell’Africa orientale italiana erano saliti a 245mila unità.