“La storia insegna ma non ha scolari”, scriveva Antonio Gramsci. E non vale solo per la storia che si studia a scuola, ma per la storia recente, di cui si dovrebbe avere memoria a breve termine. Quella che, a guardarsi indietro, racconta già come andrà a finire.
Fosse solo che l’odierno sistema CPR (Centri per il rimpatrio), prima CPT (Centri di permanenza temporanea) poi CIE (Centri di identificazione ed espulsione) ha venticinque anni, risale al 1998. Ed è stato ed è un fallimento conclamato.
Se non si volesse faticare a ripercorrerne la storia, basterebbe rifarsi ai numeri: in Italia abbiamo nove CPR, con una capienza teorica di circa 1.105 posti (numero sovrastimato, vista la chiusura del CPR di Torino).
Dall’inizio dell’anno a oggi i rimpatri sono stati 3.193, dall’inizio dell’anno a ieri gli arrivi via mare sono stati 129.869. Già così, è come pensare di svuotare il mare con il cucchiaino.
Ma se a questo dato se ne aggiunge un altro, altrettanto semplice: solo il 13,2% di chi ha avuto l’ordine di rimpatrio poi effettivamente torna al proprio paese d’origine, si comprende il fallimento di un sistema che non riesce a garantire quel che sulla carta promette.
Il garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, ha dichiarato più volte che, durante i suoi sette anni di mandato, nei CPR sono state recluse 33.252 persone migranti e rimpatriate 15.938.
Una percentuale, questa dei ritorni forzati, che non è mai cresciuta nel tempo e che rimane costosissima.
L’anno scorso, la Corte dei Conti, ha quantificato che, nel triennio 2018/2020, l’Italia ha speso 27,4 milioni di euro in rimpatri. Mediamente infatti, il costo pro-capite per persona rimpatriata è di 2.500 euro a viaggio.
Cifra cui occorre aggiungere il costo dei biglietti degli agenti di scorta, solitamente due ogni migrante, di un medico, dell’equipaggio, il noleggio del charter, il carburante, i diritti aeroportuali. Tutte voci che fanno lievitare la spesa rendendola insostenibile.
Senza contare che non si può rimpatriare chiunque e ovunque. Occorrono accordi con i paesi terzi che devono essere disposti a ricevere di ritorno i propri connazionali.
E, a oggi, gli unici accordi che effettivamente producono rientri sono quelli siglati con Tunisia, Albania, Marocco, Egitto, Nigeria e Georgia. La prima in testa a tutti per numero: sugli oltre 3mila rimpatri dello scorso anno, 2.300 avevano come luogo di destinazione il paese Nordafricano.
Da qui l’assicurazione della presidente del consiglio Meloni ieri, di un accordo con il ministro Tajani, per convocare gli ambasciatori di quei paesi di origine più dichiarati al momento dello sbarco, a oggi Guinea e Costa d’Avorio.
Sapendo che non sempre gli accordi siano garanzia di efficacia. Basti pensare alla Tunisia con cui si è sancito il Memorandum, il cui finanziamento pare ancora in forse, è vero che ha siglato l’ok per i rimpatri per i suoi connazionali, ma continua a essere il principale punto di partenza del continente.
Rimane il costo spropositato dei CPR, diventati un business per le multinazionali. Una voce per la cui gestione sono stati destinati 56 milioni di euro, nel periodo 2021-2023.
Voce che si declina in 5 euro pro-capite di spesa per chi vi lucra e riesce a fare entrare in una manciata di pochi euro, tutto: colazione, pranzo e cena.
E fosse questo lo scandalo, viste le morti, l’utilizzo di farmaci per sedare, le condizioni fatiscenti e inumane di luoghi di detenzione dove spesso si è rinchiusi senza aver commesso alcun crimine.