Guerra Israele-Hamas: il ruolo dell’Egitto tra mediazione e veti
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Da tempo sta crescendo nel paese dei Faraoni un sentimento anti movimento armato di Gaza
Guerra Israele-Hamas: il ruolo dell’Egitto tra mediazione e veti
Dopo il golpe del 2013 al Cairo, l’Egitto di al-Sisi è apparso sempre più vicino a Tel Aviv. Anche, se non soprattutto, per i legami economici con il suo vicino. Per cui i suoi attuali tentativi per promuovere un auspicabile dialogo tra le parti appaiono poco credibili per una larga fetta del mondo arabo
11 Ottobre 2023
Articolo di Giuseppe Acconcia
Tempo di lettura 7 minuti
Tratto di barriera al confine tra Egitto e Striscia di Gaza (Credit: IBTimes)

L’escalation di violenze in Israele e Palestina non accenna a diminuire, al quinto giorno dall’avvio dell’operazione Tempesta di al-Aqsa lo scorso 7 ottobre, nel 50° anniversario della guerra dello Yom Kippur.

In quell’occasione, nel 1973, una coalizione di paesi arabi, guidata da Egitto e Siria, si mostrò capace di tenere testa all’esercito israeliano lanciando un’offensiva, anche allora a sorpresa, nei territori occupati dopo la Guerra dei 6 giorni (1967).

E così Israele ha avuto carta bianca per lanciare l’operazione Spade di ferro: uno degli attacchi più violenti nella storia recente contro Gaza, che secondo gli ultimi dati del locale ministero della salute, aggiornati oggi, ha causato finora almeno 900 morti, incluse donne, bambini (almeno 140) e anziani, 200mila sfollati interni e almeno 4.500 feriti.

Come avvenne nel maggio 2021 durante l’operazione israeliana Guardiano delle mura, tutti auspicano una mediazione credibile che possa portare a un cessate il fuoco del conflitto.

Ma, anche in questo caso, è molto difficile che sia l’Egitto, appiattito su posizioni pro-israeliane, a poter ritagliarsi questo ruolo. Mentre il presidente Abdel Fattah al-Sisi ha definito «molto pericolosa» l’escalation della guerra.

Due israeliani uccisi in Egitto

La tensione è alle stelle anche al Cairo. L’8 ottobre scorso un poliziotto egiziano ha aperto il fuoco su un gruppo di turisti israeliani ad Alessandria d’Egitto, uccidendone due, insieme a una guida egiziana.

Il ministero dell’interno del Cairo ha rilasciato una dichiarazione in cui ha parlato anche di un ferito nell’attacco, assicurando di collaborare con le autorità israeliane per permettere il rientro dei turisti, senza fornire ulteriori dettagli.

L’attacco ha innescato una pletora di commenti contrastanti sui social network in Egitto, mentre il noto presentatore egiziano Ibrahim Issa ha definito in un’intervista l’attacco come un «crimine terroristico».

Dal canto suo, l’ambasciata americana al Cairo si è affrettata a chiedere ai cittadini statunitensi di prendere precauzioni, parlando di un possibile collegamento con il conflitto in corso tra Israele e Hamas.

L’intelligence israeliana presa di sorpresa e il valico di Rafah

La prima cosa che ha colpito molti osservatori in riferimento agli attacchi dei combattenti di Hamas dell’alba del 7 ottobre scorso è stata la capacità di organizzazione e di cogliere di sorpresa uno dei sistemi di sorveglianza più sofisticati al mondo.

Probabilmente si poteva fare molto di più per evitare questi raid. Un ufficiale dell’intelligence del Cairo, che ha voluto rimanere anonimo, in un’intervista rilasciata all’Associated Press, ha dichiarato di aver avvisato le autorità israeliane dieci giorni prima degli attacchi che «qualcosa di grosso, inusuale e terribile» stava per essere organizzato da Hamas.

Secondo la fonte, il premier Benjamin Netanyahu, che ha negato di aver ricevuto qualsiasi avvertimento dal Cairo, avrebbe sottovalutato l’allarme.

Con l’avvio dei violentissimi raid israeliani, il valico di Rafah tra Egitto e Gaza è rimasto prevalentemente chiuso, anche per i feriti. Ma questa volta si è andati ben oltre.

Il 10 ottobre il portavoce delle forze di difesa israeliane (IDF), Richard Hecht, aveva consigliato ai palestinesi di lasciare la Striscia.

Ma l’esercito israeliano ha rilasciato una dichiarazione in cui ha negato di aver chiesto agli abitanti (2,3 milioni) della Striscia di Gaza, sotto assedio dopo il ritiro unilaterale israeliano del 2005, di attraversare il confine con l’Egitto.

Tuttavia, il consigliere per la sicurezza nazionale USA, Jake Sullivan, ha confermato che sono in corso contatti con Israele ed Egitto per garantire un passaggio sicuro per gli abitanti della Striscia.

Dall’inizio del conflitto il valico di Rafah è stato colpito da tre raid israeliani che hanno preso di mira il lato palestinese del muro che separa Gaza dall’Egitto.

La mediazione di Egitto e Qatar per il rilascio degli ostaggi

Se una mediazione per un cessate il fuoco temporaneo appare ancora lontana, mediatori del Qatar avevano annunciato di aver avviato un tentativo negoziale per il rilascio di donne e bambini, tra gli oltre cento ostaggi di Hamas, in cambio della liberazione di 36 donne e bambini palestinesi, detenuti nelle carceri israeliane.

Tuttavia, i mediatori qatarini hanno poi fatto marcia indietro dichiarando che «è troppo presto» per qualsiasi tentativo di mediazione.

Secondo il quotidiano al-Ahram, anche l’Egitto avrebbe avviato negoziati con Israele e gruppi militanti palestinesi per il rilascio di donne e bambini palestinesi nelle prigioni israeliane, in cambio di donne e bambini israeliani, catturati dai militanti di Hamas e portati a Gaza.

Perché l’Egitto è un mediatore poco credibile

Dopo il golpe del 2013 al Cairo, l’Egitto di al-Sisi è apparso sempre più vicino a Tel Aviv.

Per esempio, per favorire gli interessi israeliani, nel Sinai tra il 2013 e il 2020 l’esercito egiziano ha distrutto oltre 12 mila case, soprattutto nell’area di al-Arish, e ha espropriato almeno 6 mila ettari di terreno, producendo circa 100 mila sfollati interni, per la costruzione di due zone cuscinetto ad al-Arish e al valico di Rafah con Gaza.

Non solo, le continue scoperte di gas nel Mediterraneo orientale hanno contribuito non poco al dialogo tra i due paesi.

Nel gennaio 2020, Israele ha iniziato a esportare il suo gas in Egitto come parte di un accordo più generale che include la consegna, attraverso pipeline esistenti, di 85 miliardi di metri cubi di gas in 15 anni, per un valore totale stimato di 19 miliardi di dollari.

Ma ieri il gestore Chevron ha annunciato la chiusura, per motivi di sicurezza, del giacimento offshore di Tamar e il dirottamento delle spedizioni offshore di gas naturale israeliano verso l’Egitto attraverso un gasdotto in Giordania.

Cosa che ha causato una diminuzione del 20% delle esportazioni verso Il Cairo, minacciando le successive consegne in Europa.

Da margine protettivo a pilastro di difesa

E così, se l’Egitto avrebbe tutte le carte in regola per favorire il dialogo tra israeliani e palestinesi, già nel 2014, al tempo dell’operazione Margine protettivo contro Gaza, si era mostrato troppo sbilanciato in favore di Israele.

Unione Europea e Lega Araba hanno fatto riferimento per giorni a una bozza egiziana di cessate il fuoco, come unica possibile soluzione ai continui bombardamenti su Gaza dell’esercito israeliano, producendo un’imponente figuraccia diplomatica del Cairo.

Negli ultimi anni in Egitto è montato un crescente sentimento anti-Hamas. Questo si può spiegare con gli iniziali legami tra il movimento palestinese e i Fratelli Musulmani, ma individua anche una più diffusa e profonda discriminazione che coinvolge palestinesi e siriani in Egitto.

Questo ha reso significativi i timidi passi che nell’anno al potere ha fatto l’ex presidente egiziano, Mohammed Morsi (2012-2013). La mediazione di Morsi, durante l’operazione Pilastro di difesa (2012), meno appiattita sulle posizioni israeliane e favorevole al dialogo tra Fatah e Hamas, sarebbe stata utilissima anche in questo contesto.

Appare molto difficile quindi che qualsiasi tentativo di mediazione possa avere successo nell’attuale situazione di grave escalation delle violenze.

Rispetto al 1973, i palestinesi sono molto più isolati nella regione e nel mondo, con l’Egitto appiattito su posizioni pro-israeliane e l’Ue pronta, tra le polemiche, a una revisione degli aiuti ai palestinesi.

Mentre la strategia di normalizzazione tra Israele e i paesi del Golfo, così come tra Tel Aviv e Riyadh, con la mediazione degli Stati Uniti, ha contribuito ad esasperare ancora di più gli animi dei palestinesi e a trasformare sempre di più il conflitto in una guerra di prossimità, marginale rispetto alle guerre che dilaniano il Medio Oriente, come in Siria.

Sul fronte delle mediazioni si muove invece la Lega Araba che, su richiesta dello Stato palestinese, proprio al Cairo tiene oggi un Consiglio straordinario dei suoi ministri degli esteri per «esplorare vie politiche sia a livello arabo che internazionale» per una de-escalation del conflitto.

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