Da dove arrivano le armi usate nello scontro che devasta il Sudan, tra l’esercito nazionale (SAF) e i miliziani delle Forze di supporto rapido (RSF)?
Negli scorsi giorni alcune notizie circolate da mass media autorevoli hanno focalizzato l’attenzione sul tema, importante non solo per capire l’andamento del conflitto, ma anche l’evolversi delle relazioni e il collocamento internazionale dei contendenti.
Il New York Times lo scorso 30 settembre ha pubblicato in prima pagina un articolo dal titolo che non lascia adito a dubbi: Gli Emirati Arabi Uniti fomentano lo scontro in Sudan mentre parlano di pace.
Vi si documenta l’invio di armamenti alle RSF mascherato da intervento umanitario a sostegno dei rifugiati nei campi profughi del Ciad.
L’operazione ha come base un ospedale, sembra poco frequentato da profughi sudanesi, e una pista in territorio ciadiano, nelle vicinanze del confine con il Darfur.
Aerei cargo sarebbero atterrati quasi quotidianamente da giugno scaricando, insieme ad aiuti umanitari, armi e droni diretti alle Forze di supporto rapido.
Gli aerei sarebbero poi ripartiti trasportando miliziani gravemente feriti da curare in uno degli ospedali militari degli Emirati stessi.
La notizia è basata su foto satellitari e testimonianze di funzionari dell’intelligence di diversi paesi occidentali, USA e UE in particolare, che hanno passato le informazioni chiedendo l’anonimato.
Gli Emirati naturalmente negano, anche perché ufficialmente fanno parte del Quad, il gruppo di paesi composto anche da Stati Uniti, Gran Bretagna e Arabia Saudita, che cercano di negoziare la pace.
Il loro supporto ad una delle due parti in conflitto sarebbe dunque estremamente imbarazzante.
Ma non è la prima volta che gli Emirati vengono chiamati in causa per trasporto di armi in Sudan da quando è scoppiato il conflitto, il 15 aprile.
Il 10 agosto scorso, ad esempio, l’edizione inglese di Al Mayadeen, un canale satellitare arabo indipendente, scriveva che le autorità aeroportuali ugandesi avevano trovato armi e munizioni su un cargo degli Emirati atterrato a Entebbe all’inizio di giugno, dichiarando di trasportare aiuti umanitari ai rifugiati sudanesi. La notizia fu pubblicata anche dal Wall Street Journal.
Tra i primi a segnalare decine di movimenti sospetti di aerei cargo dagli Emirati, via Uganda e poi verso la Repubblica Centrafricana e il Ciad, fu, il 1° luglio, il giornalista indipendente Martin Plaut, solitamente ben informato sulle questioni che riguardano il Corno d’Africa.
Anche in quel caso si suppone che i destinatari avrebbero dovuto essere i miliziani delle RSF.
Tra Emirati e RSF legami noti
Secondo un diplomatico americano, «gli Emirati vedono Hemeti (il generale Mohamed Hamdan, Dagalo conosciuto appunto come Hemeti, comandante delle RSF, ndr) come un loro uomo» e per mezzo di questa alleanza cercherebbero di avere un’influenza sempre maggiore in Africa, contendendosi la posizione con l’Arabia Saudita e il Qatar, portatori di diversi interessi economici, ma anche di diverse concezioni dell’islam.
I legami degli Emirati con il comandante delle RSF sono ben noti. Uomini delle RSF hanno combattuto in Yemen dal 2015 e poi in Libia, dal 2019, praticamente al soldo di Abu Dhabi.
I legami si sono ulteriormente stretti grazie al commercio dell’oro, estratto dal Jebel Amer, in Darfur, e gestito da Hemeti e famiglia in collaborazione con il gruppo russo Wagner, molto spesso bypassando i canali governativi ufficiali.
Il minerale viene poi commercializzato negli Emirati, uno dei più importanti hub mondiali nel settore, dove non è difficile trattare anche oro trafficato illegalmente.
Negli ultimi due anni il business sarebbe servito a sostenere lo sforzo bellico russo in Ucraìna, bilanciando le perdite economiche dovute alle sanzioni comminate dai paesi occidentali.
RSF tra Russia e Ucraìna
Questo speciale legame tra le RSF e Mosca attraverso il gruppo Wagner e il traffico dell’oro potrebbe essere una delle giustificazioni di una clamorosa notizia, fatta circolare dalla CNN lo scorso settembre.
Una fonte militare ucraìna avrebbe detto che i servizi del suo paese potrebbero essere responsabili di una serie di attacchi alle RSF con l’uso di droni.
Le operazioni, condotte contro veicoli militari ad Omdurman e sul ponte Shambat, che collega Omdurman e Khartoum Nord, sono state documentate con video geolocalizzati in cui si possono riconoscere i droni usati, anche attraverso parole scritte in ucraìno, in alfabeto cirillico.
L’operazione sarebbe avvenuta due giorni dopo l’arrivo di un carico di armi pesanti, inviato dal gruppo Wagner alle RSF attraverso il confine ciadiano.
Dopo la pubblicazione della notizia, Andrii Yusov, responsabile dei servizi di intelligence della difesa ucraìna, ha dichiarato: «Non possiamo né confermarlo né negarlo», formula che fa pensare ad una conferma indiretta.
Una fonte militare sudanese di alto livello ha invece assicurato di non aver nessuna notizia di un’operazione militare ucraìna in Sudan e di dubitare che possa essere avvenuta veramente. Increduli anche i servizi segreti americani.
Ma le immagini sembrano parlar chiaro. E non è pensabile che una simile operazione possa essere stata condotta senza l’assenso delle autorità sudanesi che, finora, sono state tra i più sicuri alleati della Russia nel continente africano.
Ma l’andamento del conflitto potrebbe aver messo in moto un cambiamento nei rapporti tra i due paesi. Non si parla però di passaggio di droni, o di armi, tra l’esercito ucraìno e quello sudanese.
Contendenti ben armati
Se sono documentati rifornimenti bellici alle RSF, certamente l’esercito sudanese non è a corto di armamenti.
Anzi è sicuro che le due parti combattenti erano pesantemente armate già prima dello scoppio del conflitto. I fornitori dell’esercito e delle Forze di intervento rapido erano in gran parte gli stessi e generalmente ben noti.
Infatti fino al 15 aprile scorso, SAF e RSF erano associati nel governo del paese fin dal primo colpo di stato, quello dell’aprile del 2019, quando avevano cercato di utilizzare a proprio vantaggio la mobilitazione popolare che aveva portato alla caduta del regime islamista del Partito del Congresso Nazionale (NCP) e alla deposizione del presidente Omar El-Bashir.
Ma anche in precedenza rispondevano entrambi al governo di Khartoum – le RSF addirittura direttamente allo stesso presidente – e godevano perciò in gran parte degli stessi benefici, anche nel settore dell’equipaggiamento militare.
Le RSF hanno avuto talvolta qualche vantaggio. Ad esempio, il governo sudanese, che aveva affidato alla milizia il controllo dei confini settentrionali, aveva dato loro in dotazione i numerosi veicoli e le apparecchiature ricevute dall’Unione Europea nel quadro di riferimento del Piano d’azione congiunto della Valletta, per contrastare il flusso migratorio e il traffico di esseri umani sulla rotta che dal Corno d’Africa arriva sulle nostre coste.
Produzione propria
Ma il Sudan le armi se le produce anche da solo. Infatti il paese – che nel corso degli anni ha ricevuto armamenti soprattutto dall’Unione Sovietica e dall’Iran, e più recentemente dalla Russia e dalla Cina – è il terzo produttore in Africa, dopo Egitto e Sudafrica.
L’esercito è proprietario della Military Industry Corporation (MIC), un insieme di compagnie che producono alla luce del sole munizioni, armi da fuoco, artiglieria pesante e veicoli militari, molti su licenza iraniana, russa e cinese.
Le armi sudanesi, esposte nelle fiere mediorientali del settore (anche ad Abu Dhabi), sono state anche esportate nei paesi della regione. Non risulta che il conflitto abbia fermato la produzione.
L’esercito dunque potrebbe essere perfettamente auto-equipaggiato, almeno per quanto riguarda gli armamenti di base. Per il resto, ci potrebbero essere i competitori degli Emirati nella regione, Arabia Saudita, Qatar e anche Turchia.
Qatar e Turchia, le cui leadership sono orientate alla fratellanza musulmana, erano tra i più forti alleati del regime islamista di El-Bashir, che si collocava nello stesso quadro ideologico.
Ora che emerge con sempre maggiore chiarezza che l’esercito ha come supporter e riferimento il passato regime, le relazioni con Doha e Ankara potrebbero diventare, o essere già diventate, di nuovo importanti.
Molto preoccupante è anche la diffusione, e proliferazione, nel paese di milizie variamente schierate e dunque di armi di diversa provenienza.
Secondo Khristopher Carlson, ricercatore del programma internazionale Small Arm Survey, coordinatore del progetto riguardante il Sudan e il Sud Sudan, il paese è “pieno zeppo” di armi.
Dopo decenni di instabilità, molte si trovano anche nelle mani dei civili, cosa particolarmente preoccupante se si pensa ad un’evoluzione del conflitto, considerata ormai probabile da diversi esperti, da scontro tra due signori della guerra a guerra civile conclamata e diffusa.